vai a   Presentazione G.B.M.Cavalletti

Premessa dell'autore
 

Pur vivendo a Trento dal 1973, idealmente non mi sono mai separato dalla mia terra natale, Montecalvo e l’Irpinia. Solido permane il senso d’appartenenza alla civiltà mediterranea.

Il legame è di tipo intimo e affettivo, ma anche spirituale. Ritengo che quella sorta di cordone ombelicale, l’imprinting ricevuto da ragazzo, agisce ancora in me, essenziale e ineluttabile, nel nutrimento e rigenerazione dell’anima. È un insieme di vere e proprie “cellule staminali” della storia, della cultura, della civiltà antropologica contadina e dell’identità d’appartenenza, che sembra non esaurire nel tempo i suoi stimoli vitali e creativi.

Il compianto amico Felice Aucelli, sindaco di Montecalvo e consigliere provinciale ad Avellino a cavallo degli anni Ottanta  Novanta del Novecento, mi confidava che ciò che più apprezzava nei miei scritti vernacolari, era la totale assenza di qualsiasi connotazione campanilistica. Talvolta mi canzonava, con una certa grazia e bonaria presa in giro, che da emigrato mi ero portato via tutto, impoverendo sia lui che i compaesani di quella che era la nostra cultura orale.

In realtà le cose stavano un po’ diversamente. La nostra cultura etnica si era memorizzata e poi cristallizzata in me. I miei compaesani, invece, avevano avuto la fortuna, essendo rimasti in loco, di viverla più a lungo. Forse superficialmente. E inconsapevolmente non si erano accorti che, complici l’emigrazione di massa e la globalizzazione televisiva, nazionale e popolare, in un trentennio essa si sarebbe depauperata a tal punto, da poter dire che oggi è quasi scomparsa. E se qualche suo brandello permane, anche se immune da edulcorazioni, non ha più la vitalità e la precisa funzione sociale per la comunità, per cui i nostri avi l’avevano elaborata e tramandata.

Io ho recuperato la nostra cultura e con gran fatica sto tentando di restituirla dal 1987. E bado che sia pura e autentica, senza gli orpelli patetici e lamentosi che capita talvolta di riscontrare in lavori di questo tipo.

Ciò che sono riuscito a raccogliere, o scrivere autonomamente in questi anni, configura un archivio completo della nostra civiltà agro-pastorale comprendente cunti, nenie, filastrocche, detti, indovinelli, maledizioni, canti profani e religiosi, e qualche preghiera medievale. Il tutto è in dialetto irpino dell’Ottocento.

Se per la gente questa mia operazione costituisca un dono, e quanto gradito, non riesco ad immaginarmelo. I legittimi referenti di questa cultura arcaica sono gli antenati. I soli ad avere, forse, vera titolarità di giudizio. Ma si sa, dai lidi su cui essi dimorano, o verso cui veleggiano, non manifestano né consensi né dissensi.

 

Questo trittico di poesie alla Madonna dell’Abbondanza, statua seicentesca di casa Pirrotti, Mamma Bella, l’appellava San Pompilio Maria Pirrotti (Montecalvo 1710 – Campi Salentina 1766), nasce tra aprile e luglio del 2003.

Per un anno mi ero portato dentro lo stupore e un senso ispirativo, per quelle tre statue lignee, ritrovate dai restauratori il 16 marzo del 2001, murate in casa Pirrotti, le cui foto avevo potuto vedere per la prima volta a Pasqua e poi di nuovo a giugno del 2002.

Dei tre testi, uno è in lingua e due sono in dialetto irpino di metà Ottocento, che ho recuperato in questi anni con un meticoloso lavoro di ricerca e riappropriazione. È il dialetto parlato dai miei bisnonni, nati verso la metà dell’Ottocento, depurato delle parole americane dialettizzate dagli emigranti di ritorno dagli USA, verso la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Questa consapevolezza ho potuto acquisirla, grazie al contributo formidabile e fondamentale di mia madre, Mariantonia Del Vecchio, contadina nata nel 1922, depositaria di quella cultura e cantatrice di numerose melodie ottocentesche.

Per ragionamento induttivo mi assumo la responsabilità di dire, dato che nei secoli passati le cose evolvevano e mutavano molto lentamente, rispetto ai tempi nostri, che probabilmente il dialetto irpino dell’Ottocento non doveva discostarsi di molto da quello del secolo precedente, il Settecento, appunto il secolo di San Pompilio.

Accompagnavo e completavo la scrittura dei versi con l’esecuzione di alcuni disegni della Madonna dell’Abbondanza e in seguito anche di S. Lorenzo e S. Pompilio.

Poi recuperavo un dipinto ad olio con San Pompilio, da me eseguito quand’ero ventenne. Due mie tempere della stessa epoca, sempre con l’immagine del santo, dopo essere state esposte per alcuni anni nella sua casa natale, mi è stato assicurato che sono conservate ora presso il reliquiario.

 

Nelle parrocchie montecalvesi di San Bartolomeo, San Nicola e nel convento di Sant’Antonio da Padova vi passai parte della mia gioventù, assieme a diversi coetanei.

La cappella di San Pompilio, con gli annessi asilo infantile e casa Pirrotti, competeva alla parrocchia di San Bartolomeo.

Eravamo nomadi noi giovani. Nel senso che ci si spostava con facilità, laddove si percepiva che vi fossero più fermenti e vita, e si potesse meglio crescere culturalmente e spiritualmente.

Della Collegiata, la splendida chiesa di Santa Maria a tre navate, ricordo l’impressionante spettacolarità teatrale della celebrazione del Venerdì Santo, che si concludeva con una mesta processione per il paese, con il Cristo morto, deposto dalla croce, e i tristi canti religiosi.

Ricordo don Carlo Lombardi, austero parroco di San Bartolomeo, poi miseramente massacrato da alcuni tossicodipendenti a Benevento, dove si era trasferito nella sua nuova sede parrocchiale.

Don Adriano De Lillo, parroco di San Nicola, ora ad Avellino, e padre Eugenio D’Agostino, dei frati minori, che, dismesso il saio, è parroco a Montella, li rammento come coloro che meglio sapevano comunicare e aprire il proprio cuore a noi giovani, illusi di poter cogliere il mondo con una mano. Quante conversazioni, quanti dubbi e interrogativi! Ma in noi si andava consolidando lentamente una convinzione: impegnandoci e appassionandoci a fondo a ciò che più ci stava a cuore, qualcosa saremmo riusciti a costruirla.

E infine un gradito ricordo corre a Rosario Cavalletti (do’ Rrusàriju), figura squisita e cortese, e a Giuseppe Lo Casale, appassionati registi teatrali che, negli ospitali spazi parrocchiali, dirigevano, con certosina pazienza, noi presuntuosi attori in erba nella recita di alcune commedie napoletane.

Montecalvo, Pasqua 2004                                                                 
Angelo Siciliano