vai a PASQUA DELL'ABBONDANZA

 

Presentazione
Il 16 marzo del 2001 rappresenta una data storica per la comunità di Montecalvo.

Al suo patrimonio affettivo ritornano delle sacre icone che il tempo, con la complicità forse inconsapevole degli uomini, aveva avviluppato negli indefinibili veli dell'oblio. Due antiche statue lignee e ciò che resta di una terza, il volto e le mani, vengono fortuitamente rinvenute in un sottoscala murato del Palazzo Pirrotti in Montecalvo Irpino, ove il 29 settembre del 1710 era nato San Pompilio Maria delle Scuole Pie. Si tratta delle raffigurazioni della Madonna dell’Abbondanza, celebrata nelle biografie del Santo per una sua famosa profezia, di San Lorenzo Martire, già collocata a protezione dei defunti di Casa Pirrotti nella Chiesa del Santissimo Corpo di Cristo, oggi scomparsa, in Montecalvo, e della Madonna Addolorata.

La pupilla dell’occhio destro di Mamma Bella dell’Abbondanza, così come San Pompilio amava rivolgersi alla stessa sacra immagine, misteriosamente ed incomprensibilmente, reca l’immagine tridimensionale di un teschio la cui formazione la scienza attribuisce a cause non umane. Singolare è il fatto che il pontefice Leone XIII, che nel 1890 proclamò beato il Montecalvese, e che nel 1838, da semplice monsignore, aveva aperto proprio in Montecalvo il processo apostolico beneventano per la sua beatificazione, riconobbe veritieri i testi i quali, sotto giuramento, avevano affermato che il Pirrotti discorreva con i teschi del Sacro Cimitero recitando con loro il Santo Rosario.

Analoghe deposizioni furono rese ai processi apostolici leccese, napoletano e anconetano.

Il cammino dello spirito spesso si accompagna, nella Storia, ai frutti che esso stesso produce nella contemplazione del Fine e dell'infinito percorso di un arcano che morde le nostre percezioni. Ed è nell'ammirazione del costruito che, molte volte, riprendiamo il percorso interrotto. Ma se all'arte si aggiunge il mistero, e se questo si esplicita nel richiamo sensibile di una morte sicura accompagnata da una inesprimibile sensazione di pace, e quindi di vita, diviene essa stessa cammino. Durante il quale ci s’imbratta e si cade.

Da vari anni Angelo Siciliano registra, con la penna e con il pennello, sensazioni attuali scaturenti da precedenti momenti di vita individuale e sociale. E scava, esplorando rimasugli e meandri, nella memoria personale e collettiva, del vissuto suo e del popolo al quale appartiene.Questa volta, però, è stato il tempo a donare, a lui e a noi, un pezzo intero della nostra storia. Pulito nell'interezza delle sue ferite: una Mamma Bella, appartenuta ad un grande del nostro passato, con la veste imbrattata di fango. Ma il fango che azzanghera la Vergine, è il nostro fango. Che la inonda, l'affonda, la sottrae allo sguardo degli uomini. Alla coscienza di un popolo che dimentica e muore. Ed ella assorbe. Anche la nostra morte.

Ha con sé le nostre strade, tortuose di secoli stretti, pregne delle acque guadate, dei calanchi freddi, o assolati, fruttate di olio e odorose di mandorle amare. Assaltata dai tarli che, oltre la morte, rodono i nostri corpi, come prima le nostre coscienze. Inappagate perché stanche, distrutte, sconsolate. Non viene dal Paradiso perché è lì che ancora sta andando, appesantita dalle nostre valigie che il figlio, coi figli, sul suo braccio sostiene. Al dolore della Croce, per la morte del suo primogenito, si aggiunge, così, lo spasimo universale di un parto foriero di gioie ancora nascoste. E quando gli stenti di vite vissute, sudate, sconfitte, ottenebrano speranze di luce e coprono i richiami celesti, ricompare la Mamma. Che non nasconde la Morte, serena mostrandola nello sguardo materno che ognuno vorrebbe incrociare la sera. Ed è la stessa mamma, gli occhi riflettenti lo strazio dell’animo, che, Addolorata, riverbera pathos d’amore al di là di un pertugio di muro ai figli morenti, numerosi come formiche, di peste e colera. Con lei c’è Lorenzo, già lieto di un pegno d’offerta, ma ancora disposto al martirio. Nonostante sia già celebrato dagli uomini, che in una notte d’amore tra il cielo e la terra lo ricordano nel connubio di stelle cadenti e suolo mortale, è prossimo, ancora, a trasformarsi in una giumella di segatura. Fratello dei morti oltre quel muro, invoca per essi la vita e, ascoltando la Mamma, muove i piedi perché non gli si rattrappiscano le gambe. Potrebbe ancora dover percorrere, con lei, tanta via tra i campi, come quella attraversata dalle madri montecalvesi e, come esse, da tutte le madri, di tutti i tempi: Incuranti della bora gelida, con le mani piagate, instancabili…. A volte oltraggiate dagli stessi mariti, ma sempre pronte a privarsi del boccone dalla propria bocca per sfamare i propri figli. E così come interminabile a Lorenzo appare la nuova agonia, incomprensibili agli uomini si presentano l’umidità che macera più delle lacrime e del sudore, la muffa che corrode le membra, i terremoti. Non solo quelli tellurici.  Distruttive di più le scosse alla coscienza.

Magistralmente espresse, dal Siciliano, nell’antico idioma, con ogni attendibilità proprio quello parlato a Montecalvo ai tempi di San Pompilio:

La paura sója era ca li ttàruli
ci carulàvunu e nnuj’arrivintàmmu
na jummèddra di sigatùra,
primu ca ci truvàvun’andó stèmmu.
Temeva che i tarli ci avrebbero
roso trasformando tutti noi
in una giumella di segatura,
prima che si scoprisse dove eravamo.

Sono i moti di chi parla al suo io nell’ incubo di non esser compreso. E’ all’interno che avviene la lotta. Inesprimibile. La morte incombe ed il tempo arretra sospingendoci verso il nulla. Eppure, un giorno, avrebbero suonato le campane a festa. Ne era conscio quel ragazzo che trovò quiete a Campi Salentina: Domenico Pirrotti, poi San Pompilio delle Scuole Pie, che quelle statue frequentò come persone. Non più come tali osservate dagli occhi profani annebbiati da sensi mortali. Lorenzo aveva già dato. Ma una novella graticola gli è offerta dai custodi del tempio. Antichi e recenti. Che gonfi di cibo caduco, mangime a quei tarli, sospinti da un fine a tutti i costi rincorso, travolgono il limpido che li ha generati. E’ il prezzo del noi. Dell’artefatto. Degli incontri a volte fraintesi. Accattivanti. Taluni ingombranti. Incompresi. Che rosicchiano, anch’essi. Tra un boccone e l’altro accantonati in posti reconditi della propria coscienza, appagata con l’indifferenza di chi non vuole vedere. Dall’ipocrisia di chi, sazio, si convince, man mano, che il male sia esterno. E si rinnova il martirio delle menti pensanti. Che la bugiarda freddezza massacra.

 «Si Santu Laviriénzu ‘nn’avév’a tte!» 
« Se San Lorenzo non avesse avuto te!»
considera l’immaginario interlocutore a Mamma Bella Addolorata.
Si nn’avév’a iddru, chi mi fuss’ajutàta
a rrègge a Nninnu ‘m brazza,
quannu stéva stanca o tinéva la fréve?
Se non ci fosse stato lui, chi m’avrebbe aiutata a reggere il Bambino in braccio, quando ero esausta o avevo la febbre?

Nel crogiuolo del caos, che gli animi avviliti dei figli mortali affardella di buio, si accende la luce vitale e d'incanto svanisce la necessità del racconto liberatorio: la Madonna sa tutto perché è stata sempre con noi, nascosta così bene che nessuno, neanche per idea, riusciva ad immaginarselo: tutto ha udito, tutto ha sofferto, tutto ha compreso. L'essenzialità del verso contiene la vastità del pensiero che, di fronte a Mamma Bella dalla faccia macchiata, interrompe le sue trame per contemplarne quell'affascinante, indefinibile sorriso: ecco che svanisce l'affanno. Ora tutto è più chiaro e in Pasqua dell'Abbondanza gli occhi della Vergine parlano: le macchie del suo viso, novello di secolari ferite che dissipa deserti di paure, possono ben rappresentare la trasfigurazione a cui l'uomo pellegrino, già viandante con lei tra filari di bosso e rosmarino odoroso, tende ed aspira. E i versi, silenziosamente rievocano le antiche processioni delle origini. I tributati fasti di un avversato popolo alla Mamma dal latte imperituro e al figlio per cui quello stesso latte fu concepito in eterno candore. E poi, tre secoli di silenzio: di rughe scavate profonde. Oggi, come ai tempi antichi, fiduciosi si sale alla Collegiata, là dove agli occhi degli uomini la Storia pareva avesse scritto fine. Ma c'era una profezia da compiere: affidata ad un figlio di Casa Pirrotti che quella Sacra Immagine, nel 1622, aveva voluto donare al culto del popolo. Pompilio, il santo che, si disse, vivente parlò con i morti, e che, ancora bambino, aveva profetizzato il ritorno di quella statua, in quella Collegiata era stato battezzato il 30 settembre del 1710. E nel sole di Pasqua, primizia di risurrezione, i doni della Mamma Bella dalla faccia macchiata. Le gialle violacciocche, fiorite tra le pietre del tempio, accompagnano l'ascesa. L'arcano è svelato.

Il Bimbo benedice e sorride.

 

            Montecalvo, Pasqua 2004                               Giovanni Bosco Maria Cavalletti