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LAUDATIO A FRANCO PEDROTTI
Il cammino lungo e tormentato per la
creazione del Parco naturale Adamello Brenta
Se per parco si intende non solo le
bellezze naturali e la protezione delle specificità locali, ma anche un
luogo di momenti esaltanti, che hanno contribuito alla storia
dell’alpinismo, come la scalata della Presanella, 3556 m, da parte di D.
W. Freshfield nel 1864, o di scelta di vita simbiotica con le montagne,
come quella del patriarca Bruno Detassis, sino al 2008, al rifugio
Brentei.
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Se per parco si intende un luogo dove è
nato l’associazionismo alpino, con la fondazione della SAT, Società
degli Alpinisti del Trentino, a Madonna di Campiglio nel 1872, e dove
prese avvio il turismo internazionale. Se per parco si intende uno
scenario di biodiversità naturali e sociali, con cui fare interagire un
laboratorio di iniziative e attività economiche, ecosostenibili ed
ecocompatibili, in grado di non alterare, o peggio non distruggere
l’equilibrio esistente. Se per parco si intende tutto questo, allora
il Parco Naturale Adamello Brenta ha motivo
di essere e le sue bellezze non sono patrimonio dei protezionisti e di
quanti per la sua istituzione si sono battuti per decenni, ma
appartengono alla collettività intera.
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Chi ne
usufruisce, gode di un autentico respiro di libertà, come di fronte alle
guglie delle Dolomiti di Brenta, grattacieli di luce, silenzio, pace e
colori, proiettati verso l’infinito, che al pittore Dario Wolf (Trento
1901-1971) davano il senso della percezione del magico e del
soprannaturale, che il mercato e la globalizzazione non sono in grado di
farci neanche immaginare. Se il Parco Nazionale del Gran Paradiso
e il
Parco Nazionale
d’Abruzzo, istituiti entrambi nel
1922, sono
i
parchi nazionali
italiani più antichi, di parco per l’Adamello-Brenta si cominciò a
parlare nel 1919, e fu Giovanni Pedrotti, socio della SAT di Trento, a
fare la prima proposta prendendo spunto dalle escursioni che aveva
effettuato negli anni precedenti nel
Parco Nazionale
d’Abruzzo. Altre proposte seguirono nel 1928, nel 1935, nel
1936, nel 1942, nel 1951 e nel 1967, anno in cui si approvò la legge
istitutiva.
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Il Fascismo,
che istituì il Parco Nazionale dello Stelvio nel 1935, aveva lasciato
andare in malora il Parco Nazionale del Gran Paradiso, con le
case di caccia, fatte costruire dal primo re d’Italia, Vittorio Emanuele
II, tutte devastate dai vandali e lo stambecco sottoposto a una
pressione venatoria tale, da parte di cacciatori e bracconieri, da
portarlo verso un declino inesorabile.
Inizialmente doveva essere Parco
Nazionale Brenta-Adamello-Stelvio, ma fu bocciato dalla regione Trentino
Alto Adige, nonostante che Renzo Videsott, trentino e docente
universitario a Torino, salvatore dello stambecco nel 1945, come
direttore senza compenso, del Parco Nazionale del Gran Paradiso, avesse
ottenuto da Roma i fondi per la sua istituzione.
Il Parco
Naturale Adamello Brenta è stato creato in ritardo, scrive Antonio
Valenti, decano degli ambientalisti trentini, all’età di 97 anni.
Se fosse stato istituito prima, prosegue, vale a dire nel 1946, si
sarebbe evitata la costruzione degli impianti sciistici in mezzo al
parco e il territorio si sarebbe conservato incontaminato, come pure si
sarebbero conservate specie faunistiche scomparse dal territorio, quale
l’orso bruno originario, o quasi scomparse come tetraonidi e coturnici.
Il Parco Naturale
Adamello Brenta, situato nel Trentino occidentale, è la più vasta area
protetta del Trentino. Con i suoi attuali 620,51 km quadrati, comprende
i gruppi montuosi dell’Adamello e del Brenta, separati dalla Val Rendena
e compresi tra le valli di Non, di Sole e Giudicarie. Ingloba 48 laghi,
il ghiacciaio dell’Adamello, uno dei più estesi d’Europa, e il
territorio di 39 Comuni.
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Costituito
con legge 12 settembre 1967 n. 7, col fine specifico di conservare
l’orso, comprende i monti dolomitici del Gruppo di Brenta e parte del
massiccio dell’Adamello-Presanella. Al momento della sua istituzione, il
Parco Naturale Adamello Brenta occupava un’area di 504 km quadrati.
Negli anni Ottanta, l’atto istitutivo era tradotto in precise norme di
protezione e di gestione del territorio. Nel 1987 erano ridefiniti i
suoi confini, ampliandone il territorio sottoposto a tutela fino a
raggiungere la dimensione attuale. Il 30 marzo 1988, dopo un iter
non facile, a tratti tormentato, e venti anni di speranze mai dome, ma
anche di cocenti delusioni, con voto a larga maggioranza del Consiglio
della Provincia Autonoma di Trento, era approvato il disegno di legge
sull’Ordinamento dei Parchi naturali del Trentino,
che istituiva gli organi per la gestione amministrativa e fissava le
modalità di utilizzo delle risorse dei Parchi naturali. Un
traguardo importante, che consentiva in luglio di far partire il Parco
di Paneveggio Pale di San Martino, nella parte orientale del Trentino,
e, in ottobre dello stesso anno, il Parco Naturale dell’Adamello Brenta,
con la costituzione del Comitato di gestione,
in cui erano riuniti i rappresentanti dei Comuni che ricadono, anche se
alcuni solo parzialmente, nell’area protetta, e le rappresentanze del
mondo ambientalista, alpinistico e venatorio. Sì perché, purtroppo, in
alcune aree del parco, seppure contingentata, è consentita la caccia. E
non è mancato, nel corso degli anni, pure il manifestarsi di pressioni e
interessi economici, in chiaro e stridente contrasto con le finalità del
parco.
Dal 2007, la gestione
delle aree protette in Trentino è regolata nell’ambito dell’ordinamento
di governo del territorio forestale, montano e dei corsi d’acqua. Una
scelta importante, che, se da una parte deve consentire un adeguato
sviluppo economico del territorio, dall’altra non deve assolutamente
minare quello spirito di protezione dell’ambiente e delle sue risorse
naturali, che ha portato alla faticosa istituzione dei parchi
naturalistici.
Allo stato attuale, si può dire con
soddisfazione che questi due parchi hanno compiuto venti anni. Ma nel
1988, nel Trentino del benessere, era ancora aperta e dolorosa la ferita
della tragedia di Stava in Val di Fiemme, con 268 vittime innocenti,
causata tre anni prima dal franamento di due enormi bacini artificiali,
di cui uno abusivo, che raccoglievano acque e fango del lavaggio del
minerale di fluorite della miniera di Prestavel della Montecatini. Un
esempio di sviluppo rapinoso, costi quel che costi, incurante del
rispetto del territorio e della salvaguardia dell’abitato sottostante.
Madonna di Campiglio,
Pinzolo e l’intera valle Rendena devono alle
incomparabili bellezze naturali, tutelate grazie al Parco Naturale
Adamello Brenta, la propria fortuna turistica. Sono unici i luoghi come
le Cascate di Vallesinella, il Campanil Basso e la Via delle Bocchette,
nelle Dolomiti di Brenta, oppure i laghi di San Giuliano, vette come il
Caré Alto, i ghiacciai delle Lobbie o del Mandrone, nel massiccio
dell’Adamello-Presanella, e le spettacolari cascate della Val di Genova.
Gli animali
presenti nel parco sono i seguenti: l’orso
bruno, scomparso per la caccia spietata di cui fu fatto
oggetto e reintrodotto, col discusso progetto Life Ursus, grazie ad
alcuni esemplari prelevati in Slovenia, e assunto come simbolo del
parco; la
volpe,
la donnola,
l’ermellino,
il tasso,
la faina,
la martora, lo
stambecco, il
camoscio, il cervo, il
capriolo, il muflone, la
lepre,
lo scoiattolo,
la marmotta,
il gallo
cedrone, la
pernice bianca,
l’aquila
reale, la
poiana,
l’astore,
lo sparviero,
il falco
pecchiaiolo, il
gheppio,
l’allocco,
il gufo
comune,
la civetta,
il
corvo imperiale,
la cornacchia,
il gracchio,
la nocciolaia,
il picchio nero
e il
gipeto,
ritornato sulle Alpi, grazie ad un progetto internazionale di
allevamento in cattività e reintroduzione nell’ambiente, patrocinato dal
WWF.
La presentazione del libro di Franco Pedrotti
Il Castello di Cles in Val di Non, dei
Signori di Clés, con i suoi affreschi di scene di vita e stemmi del
casato, situato sul lago artificiale di Santa Giustina, era la degna
cornice, il pomeriggio del 12 ottobre 2008, per la presentazione del
libro Notizie storiche sul Parco naturale Adamello Brenta
di Franco Pedrotti. Il Barone Leonardo de Clés, discendente del Principe
vescovo Bernardo Clesio (1485 Cles-1539 Bressanone), cardinale e strenuo
oppositore del protestantesimo che preparò il Concilio di Trento
(1545-1563), uomo politico, amico e cancelliere dell’imperatore
Ferdinando I, faceva gli onori di casa accogliendo con cortesia e
affabilità gli ospiti all’ingresso del maniero e introducendoli poi ai
piani superiori.
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In un salone suggestivo e gremito di
persone, con le travi del soffitto decorate e i tanti ritratti degli avi
attaccati alle pareti, introduceva la presentazione del volume Paolo
Mayr, dell’associazione Italia Nostra, in rappresentanza di Francesco
Borzaga, artefice di tante iniziative e battaglie ambientaliste,
ampiamente riportate nel libro, nonché riferimento di tutto il mondo
protezionistico, impossibilitato a partecipare all’iniziativa. Il suo
intervento, oltre che sull’importanza del libro, si incentrava proprio
sulle tante battaglie portate avanti dalla sua associazione per la
salvaguardia ambientale, prima e dopo l’istituzione del parco.
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Tra esse citava: le tante richieste per
la costituzione dei parchi naturali in Trentino; le numerose iniziative
per salvare la Val di Genova da uno sfruttamento idroelettrico
intensivo; la salvaguardia del lago di Tovel, famoso in tutto il mondo
per l’arrossamento estivo – fenomeno che non si ripete più da alcuni
decenni – dovuto alle alghe Glenodinium;
la lotta contro la funivia che da Molveno avrebbe dovuto portare nei
Massodi e proseguire con una bidonvia ai rifugi Tosa e Pedrotti; il
ricorso al Consiglio di stato contro la strada che dal lago di Tovel
avrebbe dovuto condurre a Malga Flavona; la discesa in campo per la
difesa di Val di Borzago e dei ghiacciai del Caré Alto; l’opposizione
alla delibera provinciale relativa allo sfruttamento turistico dei
ghiacciai dell’Adamello; la sensibilizzazione contro le cave di pietrame
in Val di Genova e la distruzione di un enorme masso granitico,
caratteristico di quell’ambiente.
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Per completezza di informazione – e il
libro di Pedrotti ne dà ampio resoconto – va aggiunto che, oltre a
Italia Nostra, anche altre associazioni come la SAT, Società degli
Alpinisti del Trentino, il CAI, Club Alpino Italiano, e il WWF, Fondo
Mondiale per la Natura, ma anche singoli personaggi, a titolo personale
o in rappresentanza degli enti istituzionali di appartenenza, come
Giovanni Pedrotti, Antonio Valenti, Guido Castelli, Antonio Pranzelores,
Gian Giacomo Gallarati Scotti, Fausto Stefenelli, Paolo e Renzo Videsott,
Gino Tomasi, Giorgio Bassani, Sergio Tonzig, Ulisse Marzatico e Sandro
Boato si sono personalmente e, alcuni di loro, lungamente adoperati per
l’istituzione di questo parco e la salvaguardia ambientale.
Per il giornalista Franco de Battaglia,
il libro di Franco Pedrotti si occupa del territorio trentino,
naturalisticamente più prezioso e unico paesaggisticamente, che
rappresenta una consolidata identità culturale alpina. Il massiccio di
granito dell’Adamello-Presanella, con i suoi ghiacciai, e la catena di
dolomia del Brenta, con i suoi fenomeni carsici, sono entità distinte,
ma complementari, posti l’uno a occidente e l’altro a oriente della
linea geologica delle Giudicarie, e rappresentano non solo la “spina
dorsale” del Trentino, ma anche lo scenario ambientale e paesaggistico
in cui si sono svolti i fatti più rilevanti della storia locale. E,
proseguiva de Battaglia, per Franco Pedrotti, che si è occupato nella
sua ricerca, parallela all’attività accademica, del Parco Nazionale
dello Stelvio e di quello del Gran Paradiso, era doverosa una
ricognizione su questa parte delle Alpi orientali per ricostruire la
testimonianza dei naturalisti e protezionisti trentini, assurti a
pionieri dell’ambientalismo italiano. Per de Battaglia, è notorio che
gli scalatori iniziano con lo sfidare le montagne, ma poi finiscono
sempre col diventare ambientalisti e protezionisti.
“Non sono uno storico”, esordiva Franco
Pedrotti, trentino fortemente legato alla propria terra d’origine e
professore emerito dell’Università di Camerino, felicemente sorpreso per
la presenza di tanti amici e specialisti in ambito naturalistico e
ambientale, nel suo intervento al Castello di Cles per la presentazione
del suo libro, “ma ho voluto ricercare, raccogliere e mettere insieme
una lunga serie di dati e documenti, che potranno essere utili in futuro
agli storici per scrivere la storia di questo parco. Ma tutti questi
dati servono anche a preservarne la memoria”. Questa dichiarazione è
emblematica dell’onestà intellettuale e coscienziosità, con cui l’autore
affronta le tematiche naturalistiche e ambientaliste, ma anche della
passione e dell’amore profondo per l’ambiente e la natura, e per la loro
conservazione, perché possano essere tramandati alle nuove generazioni.
La sua competenza in materia, con un curricolo straordinario di
pubblicazioni fatte, carriera accademica, collaborazioni ministeriali e
con organismi nazionali e internazionali, è fuori discussione e
costituisce la garanzia della scientificità, cui è improntata ogni sua
fatica editoriale. Chiudeva il suo intervento riferendo che in Trentino
non vi è stata una pacificazione ecologica e che è proprio grazie a quei
comportamenti, additati come estremistici, e alle intransigenze dei
pochi, che il Parco Adamello Brenta è diventato una realtà e, seppure
compromesso in alcune sue località, è un bene salvato e conservato per
la comunità, che può goderne oggi e anche per l’avvenire.
A Cles erano presenti, tra gli altri,
oltre a studiosi e ambientalisti accorsi da altre regioni, Antonio
Valenti, Ulisse Marzatico, Gino Tomasi, che si autodefinisce un
superstite tra coloro che hanno lottato per il parco, Sandro Boato e le
signore Videsott, parenti di Paolo e Renzo, venute da Torino.
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Invitati i presenti a intervenire
nel dibattito, irrompeva Ulisse
Marzatico, ex dirigente di Italia Nostra e noto per la sua
verve polemica, puntualizzando due cose: la prima è che oggi non si
sa ancora cosa sia un parco e l’idea di Bruno Kessler, allora
presidente della giunta provinciale, che il parco fosse un’entità
urbanistica, fu un’invenzione lungimirante, ma non si volle definire
cosa fosse davvero un parco, perché esso si sviluppasse di
conseguenza; la seconda è che i politici trentini non hanno mai
avuto una cultura ambientalista e anche i più sensibili a tale
problema – vedi il suo compagno di partito, il socialista Walter
Micheli – quando hanno approvato le leggi in materia hanno dovuto
accettare dei compromessi. Per Marzatico, un parco è tante cose:
natura, storia, convivenza, consapevolezza, sviluppo del territorio,
conservazione e salvaguardia ambientale…
Paolo Mayr rispondeva a Ulisse
Marzatico che il parco, proprio per il fatto che è un’identità
urbanistica, è stato tutelato e non si sono realizzate in esso nuove
costruzioni, evitando così dannose colate di cemento per l’ambiente.
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Partecipava alla presentazione, e si
esibiva in alcuni canti del suo repertorio, il coro S. Lucia di Madras,
specializzato in canti sacri, soprattutto ceciliani. Per Franco Pedrotti
è stato un incontro commovente, perché questo gruppo cantò in occasione
della commemorazione di sua moglie, un anno dopo la sua morte.
A conclusione della cerimonia, per un
brindisi finale, era offerta agli ospiti la degustazione degli ottimi
vini del Barone Leonardo de Clés.
Il libro di Franco Pedrotti, oltre ad
avere il pregio di essere uno scrigno prezioso di materiale, in gran
parte inedito, costituito da notizie, mozioni, articoli, lettere,
relazioni, proposte, interventi costruttivi o polemici, cartine, foto,
documenti e dati riguardanti la lunga e sofferta istituzione di questo
parco a partire dal 1919, riporta anche notizie su altri parchi naturali
e contiene un notevole apparato bibliografico. Ripercorre le vicende
storiche del parco, ne analizza il territorio, ricostruisce i percorsi
del movimento protezionistico, elenca le tante proposte susseguitesi nel
tempo per la sua istituzione, cita danni e minacce ambientali e si
sofferma, finalmente!, sulla sua istituzione.
L’orso bruno è un punto nodale del
libro. Negli anni, ha continuato a vagare nell’immaginario collettivo,
anche dopo la sua scomparsa.
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In passato, di questo plantigrado e
della sua protezione si era lungamente occupato Guido Castelli, che
pubblicò nel 1935 il libro L’orso bruno nella Venezia
Tridentina, che distribuì tra amici
e ambientalisti e ne fece pervenire una copia anche al re d’Italia,
Vittorio Emanuele III, invocando la protezione dell’orso. E sulle
orme dell’orso, aveva costruito la sua fama, alla fine
dell’Ottocento, il leggendario Fantoma, con baita in Val di Genova e
una ventina di orsi abbattuti. Anche Antonio Pranzelores si era
occupato dell’orso e della sua tutela con articoli a partire
dall’inizio del Novecento.
Franco Pedrotti ha collaborato pure
alla crescita dei parchi naturalistici del Centro Italia e degli
Appennini, e negli anni ha raccolto tanta documentazione originale.
Quella riguardante il Parco Adamello Brenta attende una degna
collocazione in Trentino.
L’UNESCO,
nel giugno 2008, ha
inserito il Parco Naturale Adamello Brenta nella
Rete europea e
mondiale dei geoparchi.
La rete europea dei geoparchi conta 43 aree
che,
sotto l’egida dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per
l’educazione, la scienza e la cultura, l’Unesco appunto,
lavorano insieme per conservare e
valorizzare il proprio patrimonio geologico.
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Scheda dell’autore e del libro
Franco Pedrotti,
nato a Trento nel 1934, ha insegnato Botanica nelle università di
Padova, Camerino, Milano, Catania e Ferrara. Attualmente insegna
Conservazione della natura e delle sue risorse nell’Università di
Camerino, dove dirige la Scuola di specializzazione in Gestione
dell’ambiente naturale e delle aree naturali protette (Facoltà di
Scienze e tecnologie) e il master in Pianificazione e gestione delle
aree protette (Facoltà di Architettura). Ha presieduto la Società
Botanica Italiana e fatto parte del C.N.R. Ha presieduto la Commissione
per la flora del Ministero dell’Ambiente ed è stato delegato per
l’Italia a Bruxelles presso la Comunità Europea per la Direttiva
Habitat. Ha ricevuto diverse lauree
honoris causa,
anche dall’estero. Numerose sono le sue
pubblicazioni: nella bibliografia del libro ne sono citate ben
42.
Il
libro, Notizie storiche
sul Parco naturale Adamello Brenta, di
872 pagine, con premessa dell’autore, prefazione di
Franco de Battaglia e postfazione di
Walter Micheli (Assessore all’ambiente e vicepresidente della giunta
della Provincia Autonoma di Trento, Valfloriana 1944-2008), con
illustrazioni in bianco e nero e a colori, documenti e dati, contiene
anche un ricco apparato bibliografico e di nomi di persone coinvolte a
vario titolo nelle vicende del Parco. L’autore lo ha dedicato al padre
Patrizio, che ha compiuto 102 anni e lo portò nel gruppo del Brenta sin
da ragazzino.
Edito da Tipografia
Editrice Temi sas di Bacchi Riccardo & C. di Trento, in sett. 2008, ha
il prezzo di copertina di € 30.
(Questo articolo, scritto per la rivista
trentina Judicaria e per il Corriere-quotidiano
dell’Irpinia, è nel sito www.angelosiciliano.com).
Zell, 20 novembre
2008
Angelo Siciliano |
Si parte in auto da Trento, alle sette
e trenta di giovedì, 28 luglio 2005, diretti a Molveno, graziosa
cittadina sul lago omonimo a nord della Paganella. Da lì ci avvieremo
alla meta, che stavolta è il Croz dell’Altissimo, alto 2.339 metri,
quasi nel cuore delle Dolomiti del Brenta.
Questi sono luoghi che qualche
montecalvese potrebbe aver conosciuto in passato, direttamente o per
sentito dire, essendo venuto qualche volta ad Andalo, a sciare sulle
piste della Paganella, la montagna che si frappone tra il Brenta e
Trento.
C’è un sole caldo sulla città che pare
di essere al Sud. Il fresco si spera di trovarlo in altura.
Oggi i miei due cagnolini, gli
yorkshire Totò e Fifì, restano a casa. Non sono in castigo. Nei giorni
passati si sono beccati due scaldate, prima in Val de l’Om, sotto il
Castello dei Camosci, sempre nel Brenta, poi sul Becco di Filadonna,
nella catena della Vigolana.
Pure stamattina è il mio amico Ipo,
siculo di Palermo, a fare da guida. Come da un decennio, col caldo o col
freddo, a scorrazzare insieme per le montagne della regione. Non siamo
rocciatori, ma diverse ferrate impegnative le abbiamo fatte in questi
anni, e tante escursioni e ciaspolate sulla neve. Quelle di maggiore
soddisfazione, in Val Venegia, fino alle Pale di San Martino.
Parrà strano, ma lui conosce le
montagne una per una, per nome e posizione, meglio di ciò che si porta
in tasca. Abbiamo sempre carte geografiche con noi, per individuare e
seguire i sentieri, comunque segnati e curati dalla SAT o dai gestori
dei rifugi. Non come c’è capitato invece in Sicilia, l’anno scorso,
sulle Madonie, su Pizzo Trigna, su monte Cuccio, su monte Grifone e
sulla Pezzuta, dove abbiamo dovuto avanzare a naso, tra rovi e
sterpaglie, contando sulla posizione del sole, sotto lo sguardo
incuriosito e irridente di qualche contadino del luogo, incontrato per
caso.
A differenza di tanti nativi di questi
posti, si può dire che Ipo dia del tu alle montagne. Modestamente
anch’io porto il mio contributo, in termini di cognizioni botaniche e
ornitologiche. Ma non sempre la cosa a lui è gradita, perché non vuole
sprecare minuti, né essere distolto dall’obiettivo della giornata, vale
a dire la meta da dove godersi lo spettacolo impareggiabile delle vette,
a cui punta come un segugio, come attrazione fatale o surrogato della
fede, che la natura offre gratis a chi ha lo spirito e la tenacia per
arrivare sino in cima, per contemplare il Creato.
A me personalmente l’altura, forse per
la ridotta pressione atmosferica, sblocca la fantasia e mi consente
d’annotare versi e pensieri in libertà, che in seguito assemblerò a
tavolino, e tutto questo senza fermarmi e mantenendo il giusto ritmo
nella salita o nella discesa.
Raggiungiamo Molveno passando da San
Lorenzo in Banale, e non da Mezzolombardo come di solito si fa, perché
stavolta si temeva un maggior flusso di traffico da quella parte e
l’ingorgo per lavori in corso prima di Lavis, che avrebbero potuto
rallentarci il viaggio.
Parcheggiata l’auto, con la cabinovia,
una sorta di gabbia senza tetto, ci portiamo al rifugio Pradel e da qui,
dopo aver consumato un discreto caffè, con il pulmino, che è compreso
nel prezzo del biglietto, al rifugio successivo, il Montanara a 1.525
metri.
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Zaino in spalla, con dentro giacca
a vento e un po’ di vettovaglie, scarponi allacciati stretti ai
piedi, per salvaguardare le caviglie, un cappellino in testa,
bastoncini in mano e una buona elasticità di gambe, imboccheremo il
sentiero che sale per il bosco. Oggi non c’è bisogno di ramponcini,
casco, guanti, ciaspole e altre attrezzature. Prima di avviarci
ammiriamo da sotto la cima del Croz dell’Altissimo e Cima Brenta,
alta 3.150 metri, spostata più a nord-ovest, la seconda per altezza
del gruppo dopo Cima Tosa, che di metri ne fa 3.173, la cui sagoma
s’era intravista attraverso i vetri della macchina, prima di
arrivare a San Lorenzo in Banale, che ha conservato alcune antiche
case tipiche con fienile.
Oggi ci attendono 814 metri di
dislivello. Non sono pochi, e saranno più faticosi se farà caldo.
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All’attacco del bosco si percepisce un
odore fungino. In settimana si è scaricato qualche temporale notturno, e
la luna di questo periodo ha propiziato la comparsa dei primi funghi
della stagione, i fioroni. Io sono già andato alla ricerca di funghi,
giorni fa, ma niente porcini. Vi erano solo funghi di scarso interesse,
nei boschi del Pinetano.
Camminando e aguzzando la vista, noto
un piccolo porcino e poi un altro poco distante. M’avvicino per una
verifica, resto deluso. Sembrano due satanas, l’unica brisa malefica.
Attacchiamo a salire nel bosco misto
d’aghifoglie e latifoglie, per lo più abeti, larici e faggi, con un
sottobosco erboso che pare l’habitat ideale per i funghi. Infatti, ogni
tanto divago rispetto al tracciato del sentiero, ma intravedo solo dei
lattari, delle russule, delle clavarie e dei gonfidius che neanche
tocco. Mi rassegno: niente brise oggi! Ma l’obiettivo odierno non erano
i funghi, e poi la raccolta in questa parte del Parco Adamello Brenta è
regolamentata.
S’ode qualche famigliola di
codibugnoli, uccellini del bosco con la lunga coda, che si richiamano
tra i rami col loro intermittente pigolio, e a terra, ogni tanto, si
vede qualche cumulo d’aghi di pino, che la formica rufa, ora che è
estate, sta incrementando con nuovo materiale. Salendo, cominciamo a
inerpicarci tra i pini mughi, che hanno finalmente rialzato il capo,
dopo essersi scrollata di dosso la non molta neve di quest’inverno, e i
maggiociondoli e i rododendri ormai alla sfioritura.
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Rimangono in piedi ancora molti tronchi
secchi, troppi, degli alberi bruciati da un vasto incendio di una decina
d’anni fa. Quella degli incendi boschivi, si sa, permane da sempre come
piaga nazionale, soprattutto d’estate, quando il secco e la calura fanno
da incentivo alla combustione. Chi li provoca, per colpa o per dolo, si
comporta da criminale distruttore, che non s’immagina neppure il
rispetto che si deve alla natura. E non pensa ai decenni che ci
vogliono, e alle cure necessarie dei forestali, perché queste ferite
siano sanate dal verde della nuova vegetazione, prima che il suolo venga
eroso.
Il sentiero ci tira su inesorabilmente,
ma ci raggiungono due signori emiliani, che desiderano informazioni sul
come arrivare sul Piz Gallino. Ipo dà le esaurienti indicazioni.
D’altronde questa è la terza volta che sale sull’Altissimo, mentre per
il sottoscritto è la prima.
Incrociamo altri escursionisti che già
scendono, evidentemente erano partiti di buonora stamattina, e una
coppia, più attempata di noi, che sosta per tirare il fiato prima di
riprendere a salire. Sono tedeschi di Bonn, arrivati a Trento col treno
qualche giorno fa. Da Castel Toblino, salendo a piedi per Ranzo, hanno
fatto il Passo San Giovanni sulla Paganella e sono scesi a Molveno, dove
hanno pernottato in albergo. Nella confabulazione lui cita qualche testo
letterario in latino e Ipo, vecchio di studi classici ed ex docente di
lettere e filosofia, va in brodo di giuggiole.
D’improvviso s’ode il crì-crì-crì-crì
di un gheppio. Mi soccorre il mio bird watching, ma la sua silhouette
non compare. Troppo alto nel cielo, e poi stanno avanzando delle nuvole
basse. Apparirà, di lì a qualche minuto, quando ormai abbiamo già
salutato in inglese e tedesco gli escursionisti teutonici, e ripreso a
salire.
Ormai siamo fuori del bosco, ma le
nuvole a tratti coprono il sole e una brezza fresca, che scende lungo il
fianco della montagna, ci gratifica molto, e allevia la fatica.
Oggi non si vede l’aquila. Ne
osservammo una coppia che saliva una termica, un paio d’anni fa tra
queste montagne. Fu uno spettacolo impareggiabile. Non si vedono
marmotte e neanche camosci.
Il sentiero prima sale e poi scende,
per poi riprendere a salire. Sulla destra s’intravedono a tratti due
enormi coni di roccia chiara. Sono Cima dei Lasteri e il Piz Gallino.
Attraversiamo antichi franamenti di materiale roccioso scomposto,
evitiamo accuratamente i crepacci, ci affacciamo su qualche
inghiottitoio. Insomma l’acqua e gli altri agenti atmosferici fanno bene
il proprio lavoro, e queste montagne di dolomia nei decenni cambiano
aspetto. Centinaia di milioni d’anni fa, qui c’era il mare tropicale e
queste rocce costituivano i suoi fondali a strati sovrapposti, che
vermi, molluschi, coralli e altri esseri marini incrementavano
lentamente, fissando il calcio sottratto all’acqua.
Attraversiamo distese erbose e
s’intravede di nuovo qualche fungo. Sono dei tricholomi, che stanno bene
dove si trovano. C’imbattiamo in una varietà di fiori belli e colorati:
il velo della sposa, i gerani selvatici, la genziana maggiore e
l’arnica, note agli erboristi, e tante nigritelle. Ogni tanto mi chino e
porto il mio naso fino alla cotica erbosa per aspirare, a piene narici,
il profumo di cioccolato alla vaniglia di queste orchideacee alpine, di
color rosso-porpora scuro. E poi, lungo i ciglioni riparati, tante
stelle alpine. Sono in piena fioritura adesso. Pare un eden.
Non si vedono gigli rossi oggi, e il
martagone, già sfiorito, ostenta capsule gonfie di semi. Il fiore di
un’ombrellifera, la panace, puzza di boazze di vacca. Ma qui non ci sono
né malghe né bovini. Le vacche sono a Malga Spora, nel pianoro in basso,
ad est rispetto a dove ci troviamo noi.
Giù continua ad addensarsi la foschia,
la visibilità dei luoghi ne risente. A nord sono le nubi che fanno ressa
per nascondere le vette, che solo a tratti fanno capolino.
Dopo quattro ore di salita siamo
finalmente in cima al Croz dell’Altissimo. Ci sentiamo al livello di
Cima dei Lasteri e Piz Gallino, anche se questi sono più alti di poco
più di cento metri rispetto a noi.
Cima Brenta ha una bella canottiera
bianca e grigia di nubi, che a tratti diventa cappotto o immensa coltre.
Noi si vorrebbe che il vento glieli sbrindellasse quei vapori, anziché
addensarli, ma solo per qualche istante le cime si scoprono e si
lasciano intravedere nel denso ammasso. A fotografare in queste
condizioni, neanche a pensarci, la digitale appiattirebbe tutto.
Consumiamo tranquillamente il nostro
solito pasto frugale di montagna: due panini con un po’ di formaggio,
una mela e qualche sorso d’acqua, che d’inverno invece è tè caldo o
caffè nel thermos. Ma continuiamo a scrutare il circondario. Non si sa
mai, le nuvole si muovono, noi siamo lì pronti a carpire qualche inedita
scena di guglie, pareti illuminate da qualche spiraglio di sole radente,
ghiaioni per dove passa il sentiero Orsi, e capire quanto è lontano il
Grostè, da cui, quattro anni fa partimmo, dopo essere saliti da
Campiglio con la cabinovia, per fare il sentiero Benini e andare a
scendere al rifugio Tuckett. Non è difficile capire dove si trova il
rifugio Alimonta, a cui arrivammo, un altro giorno dello stesso anno,
attraversando il sentiero Sosat.
Di fronte a noi si mostrano bene lo
Spallon dei Massodi, Cima Roma, la Val Pèrse, la Busa dell’Acqua, le
cime di Vallazza e Gaiarda, il Crozzon della Spora. Il silenzio è
assordante, ma in sottofondo la sinfonia dell’acqua, che scende proprio
dalla Busa dell’Acqua, sale melodiosa da laggiù fino a noi. Inspiriamo
aria pura e fresca a pieni polmoni, commentiamo ciò che si vede e ciò
che è nascosto. La nostra immaginazione basta e avanza, per tante
ipotesi possibili o fattibili.
Dopo una mezz’oretta di sosta, s’è
fatta l’ora d’avviarsi per il rientro. Optiamo per il sentiero
settentrionale, opposto a quello della nostra salita. Diamo l’ultima
occhiata alla croce, che rispetto a noi è sulla parte meridionale della
vetta del Croz dell’Altissimo, e ci dirigiamo verso Passo Lasteri. Da lì
si ammira bene Malga Spora e scendiamo a Passo Clamer, dove c’è un
grosso masso in bilico, sulla cresta di roccia. È il Sasso Clamer che si
nota anche da un certo punto della Val di Non.
Il sentiero a tratti è impervio e
scivoloso. Bisogna fare attenzione al ghiaino, sempre infido. Dopo un
lungo tragitto, che passa sotto la Busa dell’Acqua e incrocia la Val
Pèrse, arriviamo finalmente al rifugio Croz dell’Altissimo. Ipo tracanna
un boccale da mezzo litro di radler, un cocktail di birra e limonata. Io
m’accontento di un birrino alla spina. Sono meno pretenzioso.
La cabinovia ci aspetta a rifugio
Pradel, per riportarci a Molveno. L’ultima corsa d’estate è alle 18.30.
Dobbiamo sciogliere il passo, anche se un po’ di stanchezza s’avverte.
Salutiamo il gestore e qualche altro escursionista, e scendiamo per il
sentiero che si mantiene alto, sopra la Val delle Seghe. Passiamo sotto
la parete del Croz dell’Altissimo, palestra severa per chi fa
ascensione. Ne ammiriamo la bianca verticalità, ma ora non ci riguarda.
C’imbattiamo in numerose lapidi lungo il sentiero. Alcune riportano nome
e foto, altre il solo nome, d’uomini e ragazzi, che troppo presto si
sono immolati negli anni a questa montagna, che pure non è la più
impegnativa.
Volano allegramente le rondini di
montagna e i balestrucci, disegnando ampi e improvvisi ghirigori
nell’aria. Qui appiccicano i loro nidi di fango sotto le rocce
aggettanti. Niente rondoni dal petto bianco, che capita di ammirare
altrove, attorno agli alti picchi. Poi attraversiamo il bosco. Tanti
ciclamini sono fioriti lungo il sentiero. Di mattina inondano di profumo
l’habitat, ma ora, nel pomeriggio infocato, anch’essi stentano a
respirare.
Arriviamo al Pradel. Dalla cabinovia
sembra che ci si vada a tuffare nel lago di Molveno.
L’auto è diventata un forno. Salutiamo
le montagne, dandole appuntamento di lì a qualche giorno. Noi non siamo
mica a Milano a lavorare! Abitiamo ad un tiro di schioppo e abbiamo
un’idea fissa: mai di domenica, perché qui si fa la folla. Ripiomberemo
da queste parti, per rifare il pieno d’aria fina, riempirci ancora gli
occhi e il cuore, e riprendere il dialogo, mai interrotto, con la
natura.
(Questo
articolo, scritto per la rivista trentina U.C.T., è nel sito
www.angelosiciliano.com
e le foto, da me scattate, sono un omaggio alle bellezze del Trentino,
terra d’adozione, che m’ha consentito di realizzare ciò che chiamo
maturazione artistica e culturale “extraterritoriale”).
Zell, 29 luglio
2005
Angelo Siciliano
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