L'etnomusicologo
Roberto De Simone con Felice Cristino e lo scrittore Aniello Russo
Il
pomeriggio di sabato, 29 luglio 2006, potrà essere ricordato per un
evento importante, relativamente a quel che resta dei canti
contadini montecalvesi. L’etnomusicologo napoletano Roberto De
Simone, accompagnato da due collaboratori e dallo scrittore irpino
Aniello Russo, è venuto a Montecalvo da Napoli, per registrare
alcuni canti contadini. Personalmente li avevo già registrati negli
anni Novanta. Lui aveva avuto modo di ascoltarli, tramite l’amico
comune Russo, e si era dichiarato interessato ad alcuni di essi, in
particolare quelli cantati da Felice Cristino, Pannucciéddru, e
aveva espresso il desiderio di volerli registrare a sua volta,
nell’ambito della ricerca che sta conducendo attualmente sui canti
popolari nell’Irpinia e nella Campania.
Io,
contattato da Aniello Russo, ho fatto da tramite e così ci siamo
recati in campagna, in contrada Frascino, a casa di Felice Cristino,
la cui disponibilità è sempre encomiabile, che ci attendeva per
cantare i canti che gli sarebbero stati richiesti.
Roberto
De Simone che, negli anni Settanta, era già passato per Montecalvo con
Annabella Rossi, per registrare alcuni canti, stavolta ha scelto i
seguenti tre canti: il canto funebre Tatìllu miju; il poema Angelica; il
Canto comunista del 1946.
Si tratta
di tre canti differenti, per contenuto e melodia, ma che rappresentano,
sicuramente meglio di altri, la tipicità di ciò che cantavano i nostri
antenati e che è pervenuto sino a noi.
Va detto
però che alla scomparsa della civiltà contadina, in buona parte già
avvenuta, si accompagna inevitabilmente la sparizione di queste ultime
testimonianze, a volte ludiche, altre volte tristi, che scandivano la
vita dei nostri avi e sopravvivono ormai solo come relitti, grazie agli
ultimi anziani, cantatori dialettofoni. Da alcuni decenni non si canta più
durante i lavori nei campi, perché la maggior parte delle attività
agricole è meccanizzata. Non si canta durante le faccende domestiche,
perché gli elettrodomestici hanno invaso anche le case di campagna,
contribuendo all’isolamento delle persone. Non s’intonano più ninne nanne
per i bimbi. Non si ‘portano’ serenate alle innamorate. Non si canta di
notte, nel rientro a casa in campagna col buio pesto, per scacciare la
paura degli spiriti, delle janare e dei lupi mannari, perché anche chi
vive in campagna adesso si sposta in auto. Insomma stiamo assistendo
agli ultimi sussulti di una civiltà che ha resistito e si è tramandata
per secoli, e a cui il consumismo ha dato il colpo di grazia.
Roberto
De Simone non è solamente etnomusicologo, ma è anche
pianista,compositore, autore e
regista teatrale e di opere liriche. Oltre che per il Teatro San Carlo
di Napoli, ha lavorato per la Scala di Milano e per altri importanti
teatri italiani. È stato direttore del Conservatorio musicale di Napoli
e ha una vastissima bibliografia di opere pubblicate, anche con editori
nazionali come l’Einaudi. Da 46 anni fa ricerca sul campo e sorprende
come questo suo lungo cammino, nel territorio della musica popolare, la
cui geografia più che essersi rarefatta si è andata desertificando, lo
abbia portato ad un’essenzialità estrema. Per lui, oggi ciò che conta è
il canto registrato con la semplice voce dell’informatore. Viene fissato
per sempre il preciso momento, in cui l’informatore ha fatto ricorso
alla propria memoria per recuperare e ricreare, attraverso il canto,
momenti di vita vissuta, oggi non più riproducibili con altri strumenti.
Secondo lui anche la trascrizione del testo musicale è altra cosa,
perché attiene alla letteratura, alla glottologia e all’antropologia, e
non potrà mai consentire la ricreazione fonica precisa di timbri sonori,
parole dialettali e fonemi.
Se potrà
essere consolante, per noi e per i posteri, alcune testimonianze canore
resteranno sicuramente negli archivi dei musei etnografici e delle
fondazioni create appositamente per la raccolta di questi ‘reperti’,
facenti parte a pieno titolo della cultura orale.
Ciò che è
sconsolante, nella nostra civiltà dei consumi, è l’uso e l’abuso che ne
fanno, di questi reperti sonori, alcuni ricercatori e gruppi folk. Con
la scusa di riproporli, ridando ad essi linfa, li stravolgono
completamente. Prendendoli a pretesto ne fanno varianti e variazioni,
procedure consentite in ambito musicale, solo ai solisti di jazz. In un
certo senso, ne viene fatto mercimonio. E ciò lo si riscontra sia nelle
feste popolari che in certe rassegne di musica folk, anche di un certo
livello. Si può dire che ciò a cui oggi capita di assistere, era
consentito solo al poeta contadino, perché lui viveva il “suo tempo” nel
suo ambiente rurale e pastorale, e poteva creare nuovi canti, o
modificare quelli esistenti, perché non veniva meno la sua fedeltà ad un
canone preciso che gli era fornito dalla tradizione, dal modo di vivere
della sua gente, oltre che dagli usi e costumi. La sua etnia capiva i
nuovi canti, che erano accettati, cantati e perduravano nel tempo. Le
rielaborazioni artificiose o pretestuose, che si fanno oggi di quei
canti, lasciano il vuoto dietro di sé.
Roberto
De Simone, dopo aver ultimato la registrazione dei tre canti, ha
confidato che sarebbe disposto a tornare a Montecalvo, nel prossimo
autunno, se due o tre contadine montecalvesi si rendessero disponibili a
cantare e a fargli registrare i loro canti.
Io ho
raccolto più di cento canti a Montecalvo, classificati in oltre dieci
gruppi: poema ANGELICA, stornelli, serenate, ninne nanne, canti
pettegoli, epici, sociali (politici, di lavoro, del contrabbando), su
animali, funebri, religiosi, semipopolari, parodistici, maccheronici o
satirici.
Purtroppo
alcuni cantori, grazie ai quali avevo registrato questo materiale, come
Domenico Iorillo, Trancucciéddru,
Pompilia Isabella, Angela Pisani e Giovanni Cristino, non sono più tra
noi.
Si
allegano i testi dei tre canti di Felice Cristino, che io registrai e
trascrissi in passato, e che ora sono stati registrati di nuovo da
Roberto De Simone.
(Questo
articolo è fruibile nel sito www.angelosiciliano.com).
Montecalvo, 30 luglio
2006 Angelo Siciliano
CANTO COMUNISTA DI LU 1946
Filìcia Santusuóssu cu lu nasu da canu
Filìcia Santusuóssu cu lu nasu da canu
mugliére di sótto sìnnicu cu li scarp’a la purziàna
vóilì
e bbóilà falc’e mmartèllu trionferà.
E lu
duttore Caccese quannu magna sèmpe chjagni
e lu
duttore Caccese quannu magna sèmpe chjagni
e
‘ncòpp’a lu cummune e nu uaglióne di trent’anni
vóilì
e bbóilà falc’e mmartèllu trionferà.
Compagni, al due giugno facciamoci onore
compagni, al due giugno facciamoci onore
dobbiamo mette fuori a questi porci dei signori
vóilì
e bbóilà falc’e mmartèllu trionferà.
Rusàrija Tèrrachjàna nun póte vidé falc’e mmartèllu
Rusàrija Tèrrachjàna nun póte vidé falc’e mmartèllu,
si
véne lu cumunìsta l’adda luvà la terra
e
vóilì e bbóilà falc’e mmartèllu trionferà.
Vidi
che ccòsa dìcunu li figli di Pannucciéllu
vidi
che ccòsa dìcunu li figli di Pannucciéllu:
hannu
vintu li cumunìsti e ‘n ci livàmu chjù lu cappiéllu
vóilì
e bbóilà falc’e mmartèllu trionferà.
Antòniju l’Acciprèviti cu la ciucci’a ccapézza
‘Ndòniju l’Acciprèviti cu la ciucci’a ccapézza:
imu pèrzu lu partìtu e nun cantàmu “Giuvinézza”
vóilì
e bbóilà falc’e mmartèllu trionferà.
Lu
Prèviti Spugliàtu caccia shcuma com’a nu uèrru
lu
Prèviti Spugliàtu caccia shcuma com’a nu uèrru:
imu
pèrzu la munarchìja nun facìmu chjù n’ata uèrra
vóilì
e bbóilà falc’e mmartèllu trionferà.
|
CANTO COMUNISTA DEL 1946
Felicia Santosuosso col naso di cane
Felicia Santosuosso col naso di cane
moglie di sotto sindaco con le scarpe alla porziana
voilì
e voilà falce e martello trionferà.
E il
dottor Caccese quando mangia sempre piange
e il
dottor Caccese quando mangia sempre piange
e su
al comune un giovane di trenta anni
voilì
e voilà falce e martello trionferà.
Compagni, al due giugno facciamoci onore
compagni, al due giugno facciamoci onore
dobbiamo mettere fuori questi porci di signori
voilì
e voilà falce e martello trionferà.
Rosaria Terrachiana non può vedere falce e martello
Rosaria Terrachiana non può vedere falce e martello,
se
vince il comunismo le toglierà la terra
e
voilì e voilà falce e martello trionferà.
Vedi
cosa dicono i figli di Pannucciello
vedi
cosa dicono i figli di Pannucciello:
hanno
vinto i comunisti e non ci togliamo più il cappello
e
voilì e voilà falce e martello trionferà.
Antonio l’Arciprete con l’asino a cavezza
Antonio l’Arciprete con l’asino a cavezza:
abbiamo perso il partito e non cantiamo “Giovinezza”.
voilì
e voilà falce e martello trionferà.
Il
Prete Spogliato mastica schiuma come il verro
il
Prete Spogliato mastica schiuma come il verro:
abbiamo perso la monarchia non facciamo un’altra guerra
voilì
e voilà falce e martello trionferà.
|
Nota
Oltre a
questo canto dei comunisti montecalvesi, contro i democristiani, i
signori, i fascisti, la monarchia e la guerra, registrai nel 1990 alcuni
canti democristiani contro i comunisti, cantati dalla signora Angela
Pisani in Cavalletti.
Negli
anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, la lotta politica a Montecalvo
era molto forte. Questo paese, sino al 1963, era una delle roccaforti
rosse dell’Irpinia. Durante i comizi, sempre affollati di gente, gli
oratori arringavano la folla, dal palco o dal balcone con altoparlanti,
sparlando dell’avversario politico e arrivando spesso all’offesa
personale. Quando due parenti, anche stretti, militavano in opposti
partiti politici, i panni sporchi di famiglia erano lavati regolarmente
in piazza. A periodi, era talmente aspra la lotta politica in paese, che
gli esiti e gli eventi politici nazionali passavano in secondo piano.
Durante
le campagne elettorali, i comunisti allestivano il palco in Via Nicola
Pappano, mentre i democristiani tenevano i comizi da un balcone di uno
dei palazzi che affacciano su Piazza Monumento. Talvolta, alcune
manifestazioni politiche si svolgevano nel palazzo dell’ECA, Ente
Comunale Assistenza, costruito durante il fascismo, sul sito del
convento di Santa Caterina d’Alessandria, che era nell’omonima via, e fu
abbattuto dopo il disastroso terremoto del 1930. L’edificio ECA,
destinato per anni a sala cinematografica, fu spianato dopo il terremoto
del 1962 e sul suo sito fu allestito un grosso prefabbricato, adibito
per anni ad ufficio delle Poste e Telegrafo.
Le scarpe
a la purziàna avevano il tomaio intero dietro il tallone, mentre quello
delle scarpe a cutùrnu
era tagliato e una fettuccia di pelle cucita faceva da giuntura.
Terrachjàna, Pannucciéllu, più precisamente
Pannucciéddru,
l’Acciprèviti e
Lu Prèviti Spugliàtu sono soprannomi montecalvesi.
Nu
uaglióne di trent’anni era Ciccio Panzone, maestro socialista, succeduto
come sindaco a Pietro Cristino, antifascista, farmacista socialista e
primo sindaco democratico di Montecalvo, eletto con la lista frontista
della Spiga.
Canto
di Felice Cristino, 1921-2010, contadino; registrazione del 1996,
trascrizione, traduzione e annotazione di Angelo Siciliano.
TATILLU MIJU
Tatìllu mìju, tatìllu mìju,
c'haji
rumàsu 'mmiézz'a na vìja,
tatìllu mìju!
Ohji
che pena chi tinìmu,
tatìllu mìju!
Tatìllu mìju,
quanta gente oggi véne cqua!
Si
vede ca ìri malu cristianu,
tatìllu mìju!
Tatìllu mìju,
quannu ci pigliàvi cu cquéddra curréja,
quanta bòtte chi ci dìvi!
Haji
fattu bbuónu!
E mmò
ti tinìmu sèmp'a mmènte,
tatìllu mìju!
Tatìllu, nu 'n c'aviva rumanì,
tatìllu, nu 'nc'aviva rumanì!
E mmò
nun ti vidìmu cchjùni,
tatìllu mìju!
Tatìllu mìju, l'ór'ha 'rrivàta,
ha 'rrivàtu
puru lu taùtu,
tatillu mìju!
Com'ìma
fa, tatìllu!
Pàrlici, dìcci l'ùtima paróla:
tu mò
ti n'haja jì,
tatìllu mìju!
Ohji
tatìllu mìju, tatìllu mìju!
Tatìllu, quanta cóse c'haji 'mparàtu:
mi
parìvi nu puèta cu cquéssa vócca!
E mmò
nun dici niénti cchjùni,
tatìllu mìju!
Tatìllu mìju, fonte nuóstu,
rre
di la casa nòsta:
ti ni
vàj'e statti bbuónu,
tatìllu mìju!
Tatìllu mìju,
partiétti pi ssuldat'e mmi dicìsti:
«'N
ti 'la facénnu cu li ffémmini,
sinnò
cadi malàtu!».
Ohji
tatìllu mìju, tatìllu mìju,
che
pparóle bbelle so' state questi qua!
E l'agghju
tinùtu sèmp'a mmènte,
tatìllu mìju!
|
PADRE MIO
Padre
mio, padre mio,
ci
hai abbandonati,
padre
mio!
Ohi
che pena che abbiamo,
padre
mio!
Padre
mio,
quanta gente oggi viene qui!
Si
vede che eri un uomo malvagio,
padre
mio!
Padre
mio,
quando ci picchiavi con la cintura,
quante botte che ci davi!
Hai
fatto bene!
Ti
ricorderemo sempre,
padre
mio!
Padre, non dovevi lasciarci,
padre, non dovevi lasciarci!
Ora
non ti vedremo più,
padre
mio!
Padre
mio, l'ora è arrivata
è
arrivata anche la bara,
padre
mio!
Come
dobbiamo fare, padre!
Parla, dicci un'ultima parola:
tu
ora devi andartene,
padre
mio!
Ohi
padre mio, padre mio!
Padre, quante cose ci hai insegnato:
sembravi un poeta per come parlavi!
Ora
non dici più nulla,
padre
mio!
Padre
mio, fonte nostra,
re
della nostra casa:
te ne
vai, statti bene,
padre
mio!
Padre
mio,
partii per soldato e tu mi raccomandasti:
«Non
andare a donne,
altrimenti ti ammali!».
Ohi
padre mio, padre mio,
che
parole sagge furono queste!
E le
ho sempre avute in mente,
padre
mio!
|
Nota
Questo è
un canto artificiale, cantato dal figlio del defunto e da me registrato
molti anni dopo il decesso di suo padre.
La nenia
funebre era inventata dai parenti stretti del defunto, normalmente le
donne, durante la veglia che si teneva attorno al catafalco, nella
camera ardente allestita per l'occasione nella casa stessa del deceduto.
Ciò rientrava in quella serie di gesti e operazioni rituali, che la
psicanalisi considera come l'arcaica elaborazione del dolore e del lutto
fatta a caldo.
Attraverso il canto, i parenti dialogavano col morto: gli parlavano
amorevolmente, gli rammentavano le vicende brutte e quelle belle vissute
insieme, gli ponevano domande all'apparenza paradossali, lo
rimproveravano affettuosamente, lo ringraziavano per la saggezza con cui
era vissuto, gli si raccomandavano per il futuro. Insomma, le scene di
una vita vissuta erano riviste come in un filmato. L'intensità dei
lamenti, che diventavano anche urli impressionanti, cresceva quando
altri parenti o amici venivano a rendere omaggio alla salma.
Talvolta
anche gli uomini partecipavano al canto funebre, ma di solito il maschio
non piangeva e stava in silenzio per mostrare la sua forza morale,
rispetto al sesso femminile.
Il pianto
rituale era come uno spaccato di teatro popolare, soprattutto quando
erano più donne a piangere insieme, dialogando e alternandosi in una
sorta di recita, in cui ogni frase era inventata al momento. Il massimo
dell'intensità delle lamentazioni, con toni strazianti, lo si
raggiungeva quando la salma veniva collocata nella bara per essere
portata via. Per i bambini presenti, tutta la scena risultava
agghiacciante.
A volte
le invenzioni in un canto funebre erano così singolari, da indurre negli
estranei, che erano presenti, un sorriso a malapena trattenuto. Poi la
cosa veniva raccontata per il paese tra l'ilarità generale e circolava
anche per anni dopo l'accaduto.
A volte
una lamentazione poteva essere infarcita di finzioni e sentimenti non
realmente sentiti. Ciò succedeva quando bisognava salvare le apparenze
agli occhi della gente.
Non era
raro che in qualche caso erano le piagnone, donne pagate, a piangere per
un defunto.
Dopo i
funerali si consumava, nella casa del trapassato, il consolo, che era un
pranzo sostanzioso offerto da amici, compari o parenti larghi. Anche in
quest’occasione, naturalmente, si tessevano le lodi del defunto.
I parenti
stretti del defunto non potevano accendere il fuoco nel proprio
focolare, fino a che non si fosse celebrata una messa in suo suffragio.
In genere questo periodo, detto fuócu muórtu, durava una
settimana, durante la quale erano sempre gli amici, i compari o i
parenti larghi a provvedere a turno ad alimentare, con pasti quotidiani,
la famiglia in lutto.
Il nero
era il colore del lutto, a cominciare dai paramenti sulla porta e dai
veli e teli, sempre neri, con cui si allestiva la camera ardente nella
casa del defunto.
Per gli
uomini, l'essere in lutto, comportava la non rasatura della barba per
molti giorni. Si facevano cucire poi una fascia nera attorno alla tesa
del cappello e ad una manica della giacca; all’occhiello del bavero
infilavano un bottone rivestito di stoffa nera, fissato con un lungo
spillo che aveva sul retro; indossavano una camicia o una maglia nera,
oppure una cravatta sempre nera sulla camicia bianca.
Per le
donne, il lutto poteva essere intero, e ciò comportava l'obbligo di
indossare vesti nere anche per dieci o venti anni nel caso si trattasse
di vedove; oppure lutto a metà, miézzu lluttu, e in questo caso
le vesti, indossate per un periodo di circa sei mesi, erano "à pois",
cioè a pallini o a fiorellini bianchi su fondo nero. Era il legame di
parentela stretto o largo col defunto a indicare il tipo di lutto, cui
le donne dovevano adeguarsi.
Le donne
che vestivano il costume tradizionale, di norma indossavano già una
gonna nera, la vèsta, e calze nere, perciò, in caso di necessità,
potevano adeguarsi al lutto con relativa facilità: si facevano
confezionare un foulard nero con la frangia, lu maccatùru,
e una camicetta, la cammicètta, nera oppure "à pois".
La bara
con il defunto in genere era condotta al cimitero a spalla da quattro
uomini a pagamento. A volte potevano essere gli amici stretti del
defunto ad assumersi questo compito gratuitamente.
Il
defunto benestante era condotto al cimitero su una carrozza trainata da
cavalli e con l’accompagnamento di una banda musicale, che eseguiva
marce funebri lungo il tragitto. A Montecalvo Irpino, l'ultimo funerale
con banda musicale si è celebrato nel 1989.
Non era
raro che certe donne che presagivano la propria morte, preparassero per
tempo l’abito, con cui desideravano essere vestite da defunte, e davano
anche disposizioni precise sul modo in cui volevano che si cantassero le
nenie per quell'occasione in loro onore.
Canto
di Felice Cristino, 1921-2010, contadino; registrazione del 1990,
trascrizione, traduzione e annotazione di Angelo Siciliano.
ANGELICA
Li pparti di lu munnu l’aggiu camminàti,1
li pparti di Mircurija e di Gioia
e una cósa nunn’aggiu dumandàtu,
si la donna è fidéle o ‘ngannatóre.
Tutti m’hannu rispuóst’a lu pparlà:
«La donna nunn’è fférma di paròla.
Mar’a cquéll’uomu che s’add’accasà,
la morte si la chjama óra pi’ óra!».
Lu muttu di l’antichi m’aggiu ‘mparàtu:
«Giuvinòttu, chi fai l’amore
e nunn’amate donne si nun zit’amàtu
e mmancu ‘n ti la pigliànnu si nun ti vóle!».2
Nu cusìgliu da mìju l’aspittàti
e qualche giòrnu davanti ti lu truóvi:
«Abbàda quel giorno chi t’accàsi,
ca quel giorno l’uomo nasc’e mmóre!».
Cari signori, ch’attorno mi stati,
sopr’a stu fattu na còpia ci vóle,
pigliati l’esempio del vecchio Vitóne,3
li ccósi fatt’a ffòrza nun so’ bbóne!
Nu padre c’aveva na figlia car’amata,4
custrénta la tinév’a lu suju córe,
pareva na rosa rossa spampanàta,
miràndu lu suo viso si ni cunzòla.
Nu giòrnu li fu ffatta la mmasciàta
e ssi la figlia mmarità la vóle.
E di la dóta nun zi n’ha pparlàtu,
mancu a lu liéttu ci vuónnu li llinzóla.
Stùzia di vècchja ammachinàta!5
La vècchja di la malizia nunn’è ssóla,
ci vaci mbriéstu pi la caudàra:
«L’aggia fa la lissìja, si Dio vóle!
Sono ottu giorni ca nn’aggiu lavàtu,
pi ttiémpu nùvulu e nun cumpare sole.
Staséra l’aggia fàni la culata,
tu saji lu fastìdiju chi ci vóle».
|
ANGELICA
Per l’universo intero ho vagato,
compresi i pianeti Mercurio e Giove,
ma un interrogativo ancora mi perseguita,
se la donna sia per natura fedele o ingannatrice.
Tutti mi hanno risposto sentenziando:
«La donna non tiene fede alla parola data.
Misero colui che dovrà accasarsi,
non sa che la sua ora è già suonata!».
Un antico motto ho imparato:
«Giovanotto, che siete innamorato,
non amate donna se non siete ricambiato
e non ostinatevi a sposarla se lei vi respinge!».
Un consiglio da me desiderate
e un giorno forse ve lo darò:
«Badate quel giorno in cui vi accaserete,
perché quel giorno l’uomo nasce e muore!».
Gentili signori, che mi ascoltate,
da questo fatto si tragga una morale,
prendete esempio dal vecchio Vitone,
le cose fatte per forza non sono buone!
Un padre c’ha una figlia diletta,
la costringe a vivere segregata,
pare una rosa rossa spampanata,
mirando il suo viso se ne rallegra.
Un giorno gli giunge la richiesta,
se sia disposto a maritare la propria figlia.
Di dote neanche se ne parla,
come se per il letto non servano lenzuola.
Astuzia di una vecchia furba!
Ella non è sprovvista di malizia,
va a chiedere in prestito la caldaia:
«Devo preparare la liscivia, con l’aiuto di Dio!
Sono otto giorni che non faccio il bucato,
a causa del tempo nuvolo e mancanza di sole.
Stasera metterò a bagno i panni,
sapete bene il lavoro che ci vuole».
|
Nota
Queste sono le prime sei strofe del canto
monodico trascritto a Montecalvo Irpino nel 1949 dalla contadina Antonia
Fioravanti, classe 1928, sotto dettatura di suo nonno cantore, Giuseppe
Fioravanti, contadino e
pastore, 1874-1970; canto da me registrato il 12 aprile 1990,
grazie all’informatore Felice Cristino, contadino, classe 1921, che mi
cantava le prime 24 quartine. Ritrascrizione da me avviata nel 1993 e
ultimata nel 1996. È un canto magico-religioso con la narrazione di un
amore contrastato e un travagliato percorso iniziatico. I personaggi sono
11 e i luoghi interessati, oltre all’Italia, sono: i pianeti Mercurio e
Giove, come luoghi immaginari visitati dal cantore nel suo viaggio
cosmico; Schiavonia, l’antica Slavonia, in dialetto irpino Shcavunìja,
che nei secoli passati era la Dalmazia e più precisamente la Bosnia, luogo
assegnato dalla maga a Giovanni, come prova da superare; Turchia, terra
lontana, metafora o parallelismo col luogo di nascita di Giovanni,
innamorato di Angelica.
Le vicende esposte hanno gran rilevanza
etnica e folklorica per i tanti particolari della narrazione, tipici degli
usi e costumi locali.
1
Il cantore introduce le vicende narrate nel poema con un fatto puramente
immaginario: il proprio viaggio nel cosmo compiuto a piedi, con l’assillo
di dirimere il dubbio antico se la donna sia, per sua natura, più incline
alla fedeltà o all’inganno.
La parola
aggiu non è del dialetto
montecalvese ma di quello arianese e di altri paesi irpini.
2 Questo detto non è stato
riscontrato tra quelli raccolti a Montecalvo.
3
Soprannome di una famiglia del paese che deriverebbe, come spregiativo,
dal nome Vito. Vitone funge qui da vecchio saggio paesano e potrebbe
essere inteso come metafora del cantore.
4
Un padre, di cui non è dichiarato il nome, sta tirando su una fanciulla,
bella come una rosa rossa spampanata. È la sua figlia diletta, si chiama
Angelica, e la cela ai potenziali pretendenti.
5
L’ambasciata, cioè la richiesta al padre di Angelica, è portata da una
vecchia piena di malizia, una strega, cui ha fatto ricorso zio Francesco,
sicuramente non giovane, per entrare con l’inganno nelle grazie della
ragazza. Era in uso, nei paesi del Sud, la consuetudine di rivolgersi agli
uomini d’una certa età coll’appellativo di zio, come forma di rispetto.
La vecchia si presenta con la scusa della
richiesta di una caldaia in prestito, per poter preparare la liscivia, con
acqua bollente e cenere, per fare il bucato.
Canto di Felice Cristino, 1921-2010,
contadino; registrazione del 1990, trascrizione, traduzione e annotazione
di Angelo Siciliano.
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