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LU ZIJU DI L’AMERICA
Ogni ffamiglia tinéva
alliménu nu zìj’a l’Amèrica,
e ssi jév’avantànnu.
Èrnu pariénti partùti
vèrzu lu Nòviciéntu.
Nuji crijatùri facèmm’a sfida,
ògnùnu pi dimustrà ca lu zìju suju
era lu chjù rriccu e cca ogni ttantu
mmannàva nu paccu a l’Italia,
chjinu di bèlle cóse:
pazziarèddr’e cciculàte.
Quann’a Mmunticàlivu,
arrivava nu cristiànu
da Niv’Jòrc o da Clivilànda,
curréva vóce pi lu paése
ch’era purtàtu nu cuscìnu di dòlliri,
e nnuji uagliùni, curijùsi,
jèmm’a bbidé e cquasi sèmp,
era nu viécchju, cu na trippa ròssa,
na giacchètta lònga,
nu cappiéddr’a ttaràddru,
na caravàtta lària e cculuràta,
nu cauzóne senza curréja,
cu li ttirànti,
‘ncòpp’a nu paru di scarpi nèuri,
cu la pónta janca.
Ma dòlliri ‘n zi ni vidévunu!
Pur’ìju tinéva cèrtu zìj’amiricàni:
duji pi pparte di mamma
e duji pi pparte di pàtrimu.
Unu sulu scrivéva
e cci mmannàva nu dòlliru
o duji dòlliri a la vóta.
Era frate a mmammanònna,
la mamma di pàtrimu.
‘Nd’à na léttira, vuléva sapéni
di quisti e di quist’àuti,
dint’a n’ata, s’abitàmmu
ancóra ‘nd’à lu casìnu,
e mmannàv’a ssalutàni
li ssignurìni Di Marcu.
L’ati zìji nun diérnu chjù
ségnu di vita, s’èrnu scurdàtu
di la mamma e di lu padre.
Lu zìju ca ci scrivéva,
nu’ mminètt chjù a l’Italia.
Facéva lu sacristànu
‘nd’à na chjiésija, a Niv’Jòrc,
e cci mmannàva ritratti
di li figli e di li nipùti.
Na vóta arrivàrnu dóji fòtu:
una, andó iddru stéva cu lu véscuvu,
e l’ata, tirata ‘nnant’a la casa sója,
vascia, di lignàmu,
cu na spaddréra janca
e nu giardìnu chjìnu di fijùri.
‘Ncòpp’a ‘sta fòtu,
paréva justu nu miricànu,
cu li llènti e li capìddri curti,
di quiddri ca minévun’a lu paese.
N’annu ci mmannàvu nu paccu
e ppi l’avéni, mamm’avètta firmàni
nu saccu di carti a la pòsta.
Èrmu pròbbitu cuntènti!
Quannu l’aprèmmu, dintu
ci truvàmmu dóji paparèddre
di ceralòidi, na bibbia
e ccèrtu panni viécchj’e llàriji
ca puzzàvunu di naftalina.
Nu cauzóne di quiddru paccu,
cu na pèzza ‘mpónt’a nu dinùcchju,
l’ausàmmu pi ffà nu pagliàcciu
dint’a l’uórtu.
Accussì capèmmu,
ca si vulèmmu ca lu zìju
minéss da l’Amèrica,
cu nu cuscìnu di dòlliri,
c’èmma fa na cullètta nuji,
pariénti pòviri di lu paese!
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LO ZIO D’AMERICA
Ogni famiglia aveva
almeno uno zio in America,
e se ne vantava.
Erano parenti partiti
verso il Novecento.
Noi ragazzini ci sfidavamo,
ciascuno per dimostrare che il
proprio zio
era il più ricco e di tanto in
tanto
spediva un pacco in Italia,
pieno di belle cose:
giocattoli e cioccolato.
Quando a Montecalvo
arrivava un uomo
da New York o da Cleveland,
correva voce per il paese
che aveva portato un cuscino di
dollari,
e noi ragazzi, curiosi,
andavamo per verificare e quasi
sempre,
era un vecchio, con una pancia
grossa,
una giacca lunga,
un cappello a tarallo,
una cravatta larga e colorata,
dei calzoni senza cintura,
con le bretelle,
su un paio di scarpe nere,
con la punta bianca.
Ma dollari non se ne vedevano!
Pure io avevo degli zii
americani:
due per parte di mamma
e due per parte di mio padre.
Uno solo scriveva
e c’inviava un dollaro
o due dollari alla volta.
Era il fratello di mia nonna,
la madre di mio padre.
In una lettera, voleva sapere
di questi e di quegli altri,
in un’altra, se abitavamo
ancora nel casino,
e inviava saluti
alle signorine De Marco.
Gli altri zii non diedero più
segno di vita, s’erano scordati
della propria madre e del
padre.
Lo zio che ci scriveva,
non tornò più in Italia.
Faceva il sacrestano
in una chiesa, a New York,
e c’inviava foto
dei figli e dei nipoti.
Una volta giunsero due foto:
una, in cui lui era col
vescovo,
e l’altra, scattata davanti
casa sua,
bassa, di legno,
con uno steccato bianco
e un giardino pieno di fiori.
In quest’ultima foto,
lui pareva giusto un americano,
con gli occhiali e i capelli
corti,
di quelli che arrivavano in
paese.
Un anno ci spedì un pacco
e per ritirarlo, mia madre
dovette firmare
un’infinità di carte alle
poste.
Eravamo proprio contenti!
Quando lo aprimmo, dentro
vi trovammo due paperette
di celluloide, una bibbia
e certi indumenti vecchi e
larghi
che puzzavano di naftalina.
Un paio di calzoni di quel
pacco,
con una toppa su di un
ginocchio,
l’adoperammo per
uno spaventapasseri
nel nostro orto.
Così capimmo,
se volevamo che lo zio
venisse dall’America,
con un cuscino di dollari,
dovevamo fargli una colletta
noi,
parenti poveri del paese.
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Testo di Angelo
Siciliano, tratto dal libro “Lo zio d’America”, edito dall’editore Menna
di Avellino nel 1988.
Nota
Questo testo
rispecchia più o meno fedelmente quel mondo di affetti divisi,
patrimonio comune sino agli anni Sessanta del Novecento e raccontato
durante i lavori nei campi o dalle donne alle fontane e ai lavatoi
pubblici. Fino a quegli anni, qualche ragazzo o ragazza ancora partiva
dal paese per l’America, dopo aver contratto matrimonio per procura con
qualche discendente degli emigrati di inizio Novecento. Lo zio in
questione è il mio prozio Pompilio Iannone.
Quando,
una ventina di anni fa, chiesi a un mio amico, che aveva pure lui dei
parenti americani, di tradurre in inglese questo testo, come aveva già
fatto con un’altra mia poesia, mi rispose che, nonostante la bellezza
struggente del contenuto, non se la sentiva. Aveva troppo rispetto per i
parenti, ormai americani di seconda e terza generazione. Rispetto che
lui estendeva alla memoria dei parenti emigrati scomparsi, che si erano
trovati di fronte una realtà sconosciuta nel Nuovo Mondo, dove
incontravano difficoltà non meno dure e pesanti, rispetto a quelle che
si erano lasciati alle spalle e che affrontavano da sempre quelli
rimasti in paese. Ma almeno negli USA c’era il lavoro e,
nell’immaginario dei parenti in Italia, questo significava dollari e
quindi benessere. Probabilmente erano gli stessi emigranti ad alimentare
queste aspettative. Non potevano scrivere che lì si stava male o che il
lavoro era duro. E poi inviavano foto, ritràtti,
con abiti nuovi e alla moda. Qualcuno si spingeva oltre: si faceva
fotografare accanto a un’auto di cui non era proprietario.
Molti giovani
emigrati, partiti alla disperata ricerca di un riscatto economico e
sociale, dopo qualche anno non diedero più notizie di sé alla famiglia
d’origine. Insomma, era come se si fossero scordati di tutto e di tutti.
Genitori compresi. Anche alcuni uomini ammogliati si dimenticarono di
moglie e figli. E le mogli sventurate rimaste in paese, capita
l’antifona, mettevano al mondo altri figli con l’amante di turno, ma col
cognome del marito. Non per vendetta, ma solo per colmare un vuoto
affettivo e tirare a campare.
I flussi
migratori,
iniziati nella seconda metà dell’Ottocento e cessati nel 1924, due anni dopo la presa
del potere in Italia da parte della dittatura fascista, portarono negli
USA qualcosa come 5.000.000 di italiani. I montecalvesi furono circa
1500 (cfr. My name is Pumpilio – Montecalvesi ad Ellis Island tra
il 1892 e il 1924, a cura di Arturo De
Cillis, stampato dagli Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo SpA di
Roma nel 2008) e tenuto conto che il numero medio dei residenti in
quegli anni era poco più di 4.000, il numero dei partiti è davvero
enorme. Furono interessate dall’esodo più o meno tutte le famiglie.
Gli emigranti erano
distinti in 1^, 2^ e 3^ classe. Mentre quelli di 1^ e 2^ classe
approdavano direttamente a New York, quelli di 3^, rappresentati da
appartenenti alle classi sociali umili con prevalenza dei contadini,
dovevano indicare i loro referenti sul suolo americano e, una volta
sbarcati, erano condotti sull’isola di Ellis Island, dove erano
sottoposti a una visita medica meticolosa e, se necessario, tenuti in
quarantena. Chi non era ritenuto idoneo per lavorare, veniva respinto e
se ne tornava in Italia. E ciò rappresentava per lui un disastro, perché
in genere aveva investito tutte le sue risorse nel costo del biglietto
per il viaggio.
Ora ad Ellis Island
non sbarcano più emigranti in cerca di lavoro, ma vi ha sede la Ellis
Island Foundation con i suoi archivi, vale a dire il più grande museo al
mondo dell’emigrazione, a cui si può accedere attraverso il suo sito.
Con un certo
orgoglio ho trovato traccia del passaggio per Ellis Island dei miei
nonni, quello materno e quello paterno, di due prozii e di alcuni cugini
di mia madre. Mancano altri prozii e un bisnonno. Solo i nonni e il
bisnonno, dopo alcuni anni di lavoro, fecero ritorno in paese. Infatti,
non tutti gli emigranti restavano in America. I contadini rientrati in
famiglia, coi risparmi si comperavano della terra da coltivare e così si
affrancavano dalla mezzadria o dal dover fare
li jurnatiéri,
braccianti a vita, o li uarzùni,
i boari, per massari prepotenti. Ma dell’esperienza americana, da
inveterati patriarchi e padri-padroni, tramandavano un’opinione
negativa. Con l’esclamazione “Amu
fattu la Mèrica!”
si indicava l’insuccesso in un fine che ci si era prefissi.
Gli afroamericani erano definiti, in
senso spregiativo, facci niéuri o tizzùni,
visi neri o tizzoni. E le contadine erano solite esclamare: “Ohji
Signore, scànzini!” (Signore,
evitaceli!). Raccontavano ca ddrà cummannàvunu li
ffémmini, che lì comandavano le donne.
Dei maschi parlavano per raffronto con alcuni tipi del paese: “Jà
nu tòtir’a la miricàna!” (È stupido
come un americano!); “Jà nu tarallón’a la miricàna!”
(È grosso e superficialone come un americano!). Tuttavia, l’emigrazione
verso gli USA arricchì la parlata montecalvese con più di 40 termini
angloamericani dialettizzati e quattro soprannomi: Ariòp,
Cialì, Sciumécca e Trumànnu;
sbrigati da to hurry up, Charlie Chaplin, calzolaio da shoemaker e
soprannome derivato dalla deformazione del cognome del presidente USA
Truman.
Tra le due guerre
mondiali vi erano state delle partenze sporadiche, grazie ai cosiddetti
“Atti di richiamo”, che consentivano il ricongiungimento con i familiari
già residenti negli USA.
Negli anni
Cinquanta, molte famiglie partirono per il Sud America, con la speranza
di fare fortuna soprattutto in Argentina e Venezuela. Nei decenni
successivi, le ondate migratorie, in forte ripresa, avevano privilegiato
il Nord Italia e i paesi europei. Dapprima la Francia e poi Inghilterra,
Svizzera, Belgio, Olanda e Germania.
Poi è calato, su
tante storie di persone, il velo del silenzio. Io non riesco a
immaginarmi chi e quanti siano i discendenti dei parenti emigrati dei
miei genitori, e come vivano oggi i cugini americani. E se la sorte è
stata benigna con loro, e se talvolta pensino che qui hanno ancora dei
legami di sangue. Solo una cugina di mia madre tornò per una breve
visita in paese, subito dopo la seconda guerra mondiale, accompagnata da
un ragazzino, il suo primogenito che si chiamava Giugno. Ma forse il
nome vero era Junior. Rientrata col bastimento a Cleveland, il figlio
morì dopo qualche anno. Insomma, si moriva giovani anche in America!
Per saperne di più,
di quelle lontane e tribolate storie familiari, si possono consultare le
lettere degli emigranti, presso gli archivi dei musei etnografici e
della scrittura popolare.
Ora che la nostra
società, per molti aspetti, si è americanizzata, non si può non
ripensare con qualche tristezza e nostalgia a tutto un mondo di
sofferenze e disperazione, quello dell’emigrazione, che è tramontato con
la civiltà contadina.
(Questo testo, elaborato per il Corriere - quotidiano dell'Irpinia
e per la rivista on line Irpinia ed
Irpini di
Donato Violante, è nel sito
www.angelosiciliano.com).
Zell, 10 gennaio
2011
Angelo Siciliano
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