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LA PRESENTAZIONE DI TRE LIBRI Due a Palazzo Roccabruna a Trento e uno al Centro Civico di Cognola
Fra degustazioni e proposte enogastronomiche è stato possibile apprezzare le qualità di uno dei vini più raffinati e ricchi di storia del Trentino, un prezioso prodotto di nicchia ricavato da uve Nosiola vendemmiate in autunno e appassite per mesi su appositi telai, le Arèle, la cui pigiatura inizia per tradizione il giorno di Venerdì santo. La sua gradazione è di almeno 16 gradi e da cento chili d’uva raccolta si ricava solo il 30% in vino. Lo si può imbottigliare e commercializzare dopo almeno quattro anni di invecchiamento in botte, dove si affina e si arricchisce di molecole che ne fanno un prodotto unico. Gli operatori del settore, per essere certi di poterlo avere, lo prenotano con qualche anno di anticipo presso i produttori. Il Vino Santo si produce in un territorio incantevole, la Valle dei Laghi, il cui microclima è di tipo mediterraneo. L’habitat dell’uva Nosiola, uva bianca, semplice e dai chicchi verde-oro, comprende la Val Cavedine e il territorio che va da Vezzano sino ad Arco, con i campi strappati alle rocce lungo i fianchi delle montagne. I comuni interessati sono Arco, Calavino, Cavedine, Drena, Dro, Lasino, Nago, Torbole, Padergnone, Riva, Tenno e Vezzano. Ma oltre al Vino Santo, dall’uva Nosiola si ricava anche un altro vino. Dalle uve pigiate appena raccolte, dopo la fermentazione, si ottiene infatti il vino Nosiola di gradazione intorno ai 12 gradi, piacevole al gusto, da consumare ai pasti senza invecchiamento. Il Vino Santo ha una lunga storia che parte dal 1508, quando si produceva in questo territorio un “vino bianco dolce” che faceva parte dei prodotti della terra, consegnati ogni anno al principe vescovo Giorgio Neideck, come pagamento dell’affitto per la custodia del dazio da parte del capitano vescovile di Castel Toblino, Giovanni Battista Carioli. All’epoca del Concilio di Trento era noto il vino amabile di Calavino. Nel 1825 a Melbourne, in Australia, fu attribuito un diploma di merito al Vino Santo di Giacomo Sommadossi, titolare dell’omonima cantina, fondata nel 1822, e amministratore dei Conti Wolkenstein, signori di Toblino. Dall’inizio dell’Ottocento si diffondeva la conoscenza di questo vino nelle città europee più importanti come Vienna, Parigi, Londra e Mosca. Raggiungeva la fama all’inizio del Novecento ottenendo diversi riconoscimenti internazionali. La crisi arrivava con la grande guerra del 1915-1918. Le aziende vinicole furono costrette a ridimensionare la produzione e a cercare nuovi mercati di sbocco. Alcune piccole cantine chiusero. Anche la grande crisi economica mondiale del 1929, arrivata in Trentino nel 1932, pesò sul Vino Santo. Durante la seconda guerra mondiale veniva sospesa la sua produzione e il secondo dopoguerra è stato un periodo oscuro in cui, per carenze legislative, altri vini dolci, prodotti con procedure veloci e poco costose, si fregiavano del nome di questo vino. Si dovette arrivare alla vendemmia del 1963, perché fosse invertita la rotta di un declino che pareva irreversibile. Carlo Bleggi, presidente della Cantina di Toblino, società cooperativa con centinaia di soci viticoltori, coadiuvato dal suo direttore-enologo Giancarlo Ciurletti, decideva di iniziare l’appassimento dell’uva Nosiola per la produzione del Vino Santo secondo la tradizione della Valle. Il vino così prodotto era il Vino Santo Classico Trentino, per distinguerlo dai vini analoghi commerciali esistenti sul mercato. Ma era Giuseppe Morelli che, negli anni successivi, si faceva carico della promozione per la rinascita di questo vino e così il 30 settembre 1976 nasceva il Consorzio volontario di autodisciplina per la valorizzazione del Vino Santo, registrato presso il notaio il 30 dicembre 1982. Il presidente era Arrigo Pisoni di Pergolese. Il Consorzio fissava le regole che i produttori consorziati dovevano rispettare: una bottiglia uguale per tutti con retroetichetta numerata, da applicare su ogni bottiglia di Vino Santo, e un bicchiere standard per la degustazione. Rimane famosa la manifestazione promozionale di Palazzo Pitti a Firenze, nel gennaio 1994. Passano gli anni e cambiano i tempi, svanisce l’entusiasmo iniziale e dopo 21 anni di presidenza, il 10 marzo 1997, Arrigo Pisoni si dimette. Il Vino Santo ha ottenuto la DOC, Denominazione d’Origine Controllata, e il Consorzio appare ormai inutile. Nel 2002 la normativa sulla Denominazione d’Origine Controllata “Trentino” è modificata e, per il Vino Santo, c’è la possibilità di fregiarsi della denominazione “Vino Santo Superiore”, ma è previsto un disciplinare più severo da rispettare per la sua produzione. Il 18 aprile 2002 è legalmente costituita la nuova “Associazione Vignaioli del Vino Santo Trentino DOC”. Sono cinque i soci fondatori: Cantina Toblino di Sarche, A.A. F.lli Pisoni di Pergolese, A.A. Francesco Poli di Santa Massenza, A.A. Giovanni Poli di Santa Massenza, A.A. Gino Pedrotti di Masi di Cavedine. A questi si aggiunge poi il sesto produttore di Vino Santo, la Cantina Pravis di Lasino. Questa associazione, che ha come presidente Marco Pisoni di Pergolese e come vicepresidente Carlo Filiberto Bleggi della Cantina di Toblino, opera con uno Statuto di 21 articoli e lo scopo, come scrive Andrea Andreotti, è “di valorizzare il Vino Santo Trentino, curandone la qualità, approfondendone le origini e interpretandone meglio caratteristiche e meriti”. La storia del Vino Santo Trentino, dunque, continua. Nereo Pederzolli confidava ai presenti che questo libro doveva essere scritto a quattro mani, tesi e controtesi tra lui e Andreotti, ma la sorte aveva deciso diversamente. Nei dieci capitoli del libro, oltre a trattare della produzione del Vino Santo e della sua storia, l’autore si sofferma sui grandi vini dolci naturali, sull’amenità dei luoghi di coltura del vitigno Nosiola (pare sia l’unico vitigno autoctono sopravvissuto alla fillossera), sulle famiglie e le cantine che l’hanno reso famoso, sulle manifestazioni che hanno contribuito a diffonderne la conoscenza presso i consumatori. Nereo Pederzolli in chiusura riferiva che per il Vino Santo Trentino, che ha già la DOC, si cercherà di ottenere la DOCG, Denominazione d’Origine Controllata e Garantita. Ma l’operazione non è semplice, perché tra le altre cose bisognerà cercare di distinguersi da vini analoghi esistenti sul mercato, come il Vin Santo toscano, passito anch’esso, ma con peculiarità diverse. La via percorribile sembrerebbe quella di aggiungere al Vino Santo Trentino il nome Arèle, il cui significato è graticcio, su cui si appassiscono le uve Nosiola. Concludeva la presentazione del libro un rinfresco, offerto dalla C.C.I.A.A. di Trento, e, oltre alla degustazione del Vino Santo e del vino Nosiola, si potevano assaggiare alcune specialità trentine che ben si combinano con questi due vini. (Questo articolo, scritto per le riviste “La Vigna” e “Judicaria”, è nel sito www.angelosiciliano.com).
Scheda del libro Il libro di Andrea Andreotti Vino Santo Trentino – un luogo, un mito, di 160 pagine, con 40 fotografie in bianco e nero e 51 a colori, scattate in massima parte da Massimo Zarucco, e con un’appendice di Nereo Pederzolli, è edito, per il marchio ARTIMEDIA Sas, Via Madruzzo n. 31 Trento (tel. 0461-232400, sito www.artimedia.it), da “Valentina Trentini editore”, una casa editrice al femminile che s’avvale della collaborazione di Gloria Callegari, Stefania Gasperi, Mara Franceschi, Enrica Rigotti e il coordinamento editoriale di Giovanni Giovannini. Stampato nel 2005, dalla tipografia Temi, ha il prezzo di copertina di € 25.
Certamente esso focalizza solo un piccolo segmento della storia di questa terra, ma è un inizio incoraggiante. Da queste parti passava la Via romana Claudia Augusta Altinate, che dal Veneto portava in Germania. Nel pianoro delle Marnighe, dov’è stato edificato il Centro Civico della Circoscrizione Argentario, nel 1525 fu soffocata nel sangue la “Guerra dei Rustici”, drammatica ribellione dei contadini contro le vessazioni e i soprusi dei principi vescovi, signori del Principato di Trento. All’inizio dell’Ottocento, probabilmente, transitarono da queste parti le truppe napoleoniche: lo comproverebbe una monetina francese dell’epoca, che rinvenni negli anni Ottanta nell’allora sterrata Via Camilastri. È un libro che l’autrice ha costruito scavando nella memoria di questi luoghi, ascoltando la gente e cercando negli archivi privati e pubblici i documenti e le tabelle di dati che comprovassero i fatti riportati. Lo ha assemblato pazientemente come un puzzle, con la sua consueta carica di umanità, arricchendolo con foto e cartoline d’epoca. È una Cognola dimenticata e sconosciuta ai più, ancora contadina, di allevatori del baco da seta e di cavatori di lastre di marmo, con una viabilità da Medioevo, quella di questo libro. Basti pensare che nel 1925 il Comune dovette rinunciare all’acquisto di un’autolettiga, perché la stessa, in caso di necessità, non sarebbe stata in grado di raggiungere le frazioni, a causa di carenza o inadeguatezza delle strade. È una Cognola che straripa di umanità, di rapporti improntati alla solidarietà, lontanissima da quella attuale, stravolta dalla cementificazione e dal convulso sviluppo della viabilità. Il libro parte dalle “Carte di Regola” che, sino all’inizio dell’Ottocento, fissavano le regole per la gestione dei beni comuni e di quelli individuali. Poi tali Carte furono modificate e nel 1805 Cognola, Villamontagna e Montevaccino diventarono Comuni di campagna. Nel 1900 l’Amministrazione austriaca attuò una riforma di questi comuni e Cognola diventava Comune autonomo inglobando Martignano, Montevaccino, Tavernaro e Villamotagna. In totale gli abitanti erano 2187. L’attività principale era quella agricola, con prevalenza della viticoltura. L’altra attività che dava da vivere era quella di cavapietre e scalpellini. A partire da dietro il Castello del Buonconsiglio e sino ai Solteri, e poi a salire verso Pila di Villamontagna, il territorio era disseminato di cave. Le condizioni di vita erano veramente grame, perché, nella seconda metà dell’Ottocento, la fillossera, parassita della parte radicale delle viti, distruggeva i vigneti costringendo i viticoltori a sostituire i vecchi impianti, e la malattia dei bachi da seta, la pebrina, falcidiava gli allevamenti come un’autentica calamità. E c’era da sempre il problema dell’acqua potabile che non si lasciava imbrigliare a monte, tra Zell e Moià. Tuttavia, vi erano delle note positive alla fine dell’Ottocento: sul fiume Fersina si inaugurava nel 1890 la prima centrale idroelettrica di Ponte Cornicchio, che avrebbe portato l’illuminazione in Trento e la forza motrice in alcune aziende industriali; nel 1896 si inaugurava la ferrovia della Valsugana, che poi sarebbe arrivata sino a Venezia; grazie ai lavori fatti sul fiume, si promuoveva un’attività turistica organizzando visite alla cosiddetta Cascata dell’Orrido a Ponte Alto. Si avvicinava la grande guerra del 1915-1918 e il 1913 fu un anno terribile. Imperversavano ancora la fillossera e la pebrina, e tra gli animali delle stalle si diffondeva l’afta epizootica. Nel 1914, scoppiata la guerra tra Austria e Serbia, dopo l’assassinio dell’arciduca ereditario Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia a Sarajevo il 28 giugno, tutti gli uomini validi erano mobilitati e partivano per il fronte. Le scuole erano trasformate in caserme e in giro erano state predisposte fortificazioni militari, prevedendo un’aggressione da parte dell’Italia. Durante la guerra gli uomini erano al fronte, molte famiglie di Cognola erano profughe in Moravia e chi era rimasto pativa la fame. Finita la guerra, il Trentino e l’Alto Adige erano annessi all’Italia. Si avviava una ripresa economica per il ritorno alla normalità e si procedeva al rimboschimento di monte Calisio. Dal 1922 è al potere il fascismo e il 16 settembre 1926, con Regio Decreto n. 1798, il Comune di Cognola, dopo l’inventario dei propri beni immobili, dei beni mobili, dei crediti, dei debiti, rappresentati dai mutui passivi, e dei documenti, è aggregato al Comune di Trento. Andando in giro per le frazioni di Cognola si riscontra ancora oggi qualche scritta murale, scampata alla distruzione, o alla ridipintura, come quella ben conservata di Moià e quella in pessimo stato di Zell, che attestano Cognola come Comune. Il libro di Maria Tomasi non ha l’indice. L’autrice l’ha omesso volontariamente e così scrive nell’ultima pagina: “Nessuna storia finisce: questa è stata presentata senza indice, quindi programmaticamente infinita. Vuole essere una porta aperta che invita a proseguire”. L’autrice, quindi, che non lancia sfide, fa un invito a qualche ipotetico appassionato di storia locale, a varcare idealmente la soglia di quella porta, a sedersi, per proseguire per proprio conto, con la scrittura, un cammino già iniziato e aperto ad altre prospettive. E sicuramente, la nostra comunità saprebbe apprezzare uno sforzo del genere e manifestare il proprio gradimento. E gioverebbe tanto anche ai giovani studenti delle nostre scuole, inondati da effluvi multimediali della quotidianità che stordiscono i sensi e disorientano il cervello, privandoli di fatto di ogni prospettiva storica. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).
Scheda del libro Il libro di Maria De Paoli Tomasi COGNOLA, Comune autonomo (1900-1926), di 48 pagine, con 30 illustrazioni d’epoca in bianco e nero, impaginato da Antonio Mariotti, pubblicato a cura del Comune di Trento – Circoscrizione Argentario, è stato stampato in gennaio 2007 dalla litografia «Lineagrafica Bertelli Editori» di Trento. Il libro si può ritirare gratuitamente presso la Biblioteca dell’Argentario. IL FILO Il filo di Arianna entra corre esce dalle canope su giù per il Calisio ricama tesse rinsalda ce ne vuole a fare intendere che non trattasi del tappeto di Penelope. A Maria De Paoli Tomasi.
Angelo Siciliano, Zell 1994 Questa poesia è edita nella mia raccolta DEDICHE, 1994, delle Edizioni ARCA di Trento.
Zell, 6 maggio 2007 Angelo Siciliano
Una vita sicuramente instancabile e piena quella di Šebesta. Unica e inimitabile, come ricercatore sul campo e creativo dai multiformi interessi. Vitale ed esplosivo, introverso e spesso intrattabile per i collaboratori e non solo. Tuttavia, come nella vita di ogni creativo che si avventuri per territori inesplorati, avrà pure avuto qualche ridondanza autoreferenziale, ripensamenti e ritorni sui propri passi, ma i frutti del suo operato sono visibili e tangibili. E questo dovrebbe bastare a sgomberare il terreno da riserve e resistenze se ancora ve ne fossero. Fu poeta, scrittore, inventore di fiabe, pittore, graffitista, autore cinematografico d’animazione, etnografo, antropologo e archeologo. Interagiva con l’immaginario della gente delle valli alpine e non solo. Profondamente mitteleuropeo, con una cultura vastissima, baciato da tutte le muse, forse eccetto una, la musica, scrive Kezich. Tuttavia, come documenta Renato Morelli nel suo intervento, è stato il pioniere della ricerca etnomusicologica in Trentino. Col registratore a filo, infatti, nel 1949 raccoglieva le testimonianze canore della cultura orale in Val dei Mocheni, dove si era rifugiato e avrebbe scoperto la laboriosità e l’ingegnosità, di quegli appartati valligiani alloglotti, nel costruirsi gli strumenti di lavoro. E poi a quell’epoca lui sapeva suonare la rèta, l’organetto diatonico più diffuso nella valle per i balletti folkloristici. Oltre al Museo Etnografico di San Michele all’Adige, sono sue creature anche il Museo degli Usi e Costumi della Gente di Romagna di Santarcangelo e il Museo degli Zattieri di Codissago, dove scorre il Piave, vicino Longarone. E si tratta di musei di prima grandezza in Italia. Ma lui è stato anche il teorico innovativo di come si fa un museo etnografico abbandonando vecchi schemi accademici, per un percorso interdisciplinare tra archeologia ed etnografia, con l’utilizzo dell’iconografia storica e della storia della tecnologia. Non basta esporre oggetti didascalizzati e decontestualizzati in ambienti asettici, per rendere vivo un museo agli occhi della gente. In ossequio all’ergologia, per Šebesta, che aveva una straordinaria capacità manuale, al centro di tutto va posto il lavoro dell’uomo, ripercorso attraverso gli strumenti adoperati da contadini e artigiani nel lavoro quotidiano e, andando a ritroso nel tempo, si arriva a capire come esso era svolto e come si è evoluto nei secoli, calandosi talvolta fino alla preistoria. Šebesta ha fatto proseliti e tanti museografi militanti ne hanno seguito le orme, creando a loro volta musei, perché il suo è un metodo etnomuseografico non solo innovativo, ma ha anche il pregio di essere stato teorizzato per essere messo in pratica. Se spesso Šebesta era scontroso, era perché si vedeva circondato sul lavoro da giovani laureati ad inizio carriera, poco propensi a “sporcarsi” le mani con gli oggetti. Era indispettito al punto che una volta mi confidò che il suo schedario personale, vero e proprio scrigno di memoria creativa con appunti, schizzi, disegni, foto, ritagli di giornali e libri, lo avrebbe donato a un’università austriaca. Ma ora apprendo con piacere, dallo scritto di Antonella Mott, che quella raccolta di 10.000 schede è custodita con grande cura dal Museo di San Michele. Intervenendo tra il pubblico presente alla presentazione del libro, Ulisse Marzatico, che è stato amico di Šebesta, puntualizzava che lui aveva la capacità non comune di creare cultura e che dal convegno non è stato dato risalto alla sua arte pittorica. Eppure il Castello del Buonconsiglio allestì un’importante mostra antologica con i suoi quadri alcuni anni fa. Aggiungeva che i politici, che mal sopportavano il personaggio, non sempre avevano la percezione dell’importanza delle sue proposte, che nascevano da intuizioni geniali, e non ne assecondavano sempre le iniziative. Il Museo degli Zattieri, fatto a Codissago, lui lo avrebbe creato volentieri a Sacco di Rovereto, che nei secoli passati era uno degli scali importanti per il trasporto fluviale di merci e legname sul fiume Adige. E quel che più conta, lo avrebbe creato lavorando gratis. Ma anche la patria boema di suo padre gli ha tributato riconoscimenti e onori con una mostra del 1998, trasferita nel 2000 al Museo Nazionale dell’agricoltura di Praga. Il Museo di San Michele è molto attivo e si trova ad operare in un territorio, quello trentino, in cui i vari musei sono in ammirevole competizione per quanto concerne le offerte culturali al pubblico. Nel 2006 organizzò una bella mostra a Palazzo Roccabruna “Dèmoni pastori e fantasmi contadini – Le mascherate invernali dalle Alpi orientali ai Balcani”, abbinata alla caseificazione e a un convegno internazionale sullo stesso tema. Il 27 aprile di quest’anno, a chiusura del convegno “Viaggio nell’immaginario popolare trentino” era inaugurata, gemellata col Festival della Montagna, sempre a Palazzo Roccabruna, la mostra “Viaggio nell’immaginario popolare trentino – Storie di uomini selvatici, di anguane e d’altro ancora… Šebesta e Foches”. Bèpo Šebesta, ovunque si trovi, può essere contento. La sua creatura è in buone mani. È viva e vegeta e, almeno per ora, lui non ha motivo di brontolare. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).
Scheda del libro Il libro GIUSEPPE ŠEBESTA E LA CULTURA DELLE ALPI, SM Annali di San Michele 20/2007, Atti del Seminario Permanente di Etnografia Alpina (SPEA10) 2005, a cura di Giovanni Kezich, Luca Faoro e Antonella Mott, di 342 pagine, con 75 illustrazioni in bianco e nero e 64 a colori, riporta le relazioni di Luigi Zanzi, Romano Perugini, Giuliana Sellan, Renato Morelli, Daniela Perco, Ester Cason Angelini, Emanuela Renzetti, Antonella Mott, Roberto Togni, Mario Turci, Johnny Gadler, Franco Da Rif, Gaetano Forni, Massimo Pirovano, Naděžda Bonaventurova, Stefano Fait, Laura dal Prà, Christian Abry e Alice Joisten, Andrea Foches, Corrado Grassi, Lia Zola, Cesare Poppi, Francesco Prezzi, Mario Rigoni Stern, Giovanni Kezich e Antonella Mott. Edito dal Museo degli usi e Costumi della Gente Trentina (mucgt@museosanmichele.it; www.museosanmichele.it), è stampato dalla Litotipografia Stampalith di Trento nel marzo 2007. Il prezzo di copertina è di € 32. POSTERI* Carbonai metallurghi a noi posteri tramandarono tracce mimetizzate oggetti rari. Qualcuno interpreta le non scritture sillaba le non lingue ode le non voci tutto ci riporta per filo e per segno. * A Giuseppe Šebesta Angelo Siciliano, Zell 1994 Questa poesia è edita nella mia raccolta DEDICHE, 1994, delle Edizioni ARCA di Trento. Zell, 18 maggio 2007 Angelo Siciliano
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