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È un
romanzo particolare e inconsueto che fa rivivere l’atmosfera
dell’Ottocento, quello che Fausta Garavini ha pubblicato nel 2008,
In nome dell’imperatore,
costruito su documenti d’archivio – da cui l’incedere frammentario –, ma
non è né un saggio storico né un’opera di narrativa d’invenzione. È
tuttavia un lavoro meticoloso che si basa sull’indagine storica e si
dipana, con scrittura elegante, a seconda delle esigenze descrittiva o
introspettiva, lungo un mosaico di eventi, le cui tessere alla base
dell’elaborazione narrativa sono i documenti d’archivio, i rapporti di
polizia, la corrispondenza, i tanti personaggi riesumati e i fatti, dal
1809 al 1866, riguardanti Antonio Salvotti (1789 Mori-1866 Trento),
giudice inquisitore trentino, che processò negli anni 1819-1824 i
Carbonari, patrioti del Risorgimento italiano del Lombardo-Veneto,
all’epoca sotto l’Austria, e ricoprì anche la carica di consigliere
personale dell’imperatore Francesco Giuseppe per la riforma delle leggi.
La famiglia Salvotti è originaria di
Mori (Tn) e Antonio, nato borghese l’anno in cui scoppiò la rivoluzione
francese, in età matura sarebbe stato nominato “Barone di Eichenkraft
und Bindeburg” per i meriti acquisiti col proprio operato. Fu allievo
in Germania di
Friedrich Carl von
Savigny, fondatore della scuola storica tedesca, col quale
studiò legge e presso di cui si rifugiava ogni qualvolta aveva voglia di
sfuggire alla noia della corte viennese.
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A Milano, vibrante di
vita e cultura, che faceva parte del Regno Italico assieme al
Tirolo, andò a fare pratica legale dopo la laurea, frequentando la
bella società e iscrivendosi alla massoneria. Superato
brillantemente l’esame per l’avvocatura, decise di stabilirsi a
Trento, città inerte e provinciale, dove la società era “piccina,
ipocrita e pettegolaia”, perché dopo tutto era la sua città, e vi
erano la sua famiglia, con palazzo in via Calepina e villa sul colle
di S. Giorgio alla Vela, e gli amici, tra cui il prediletto Paride
Zaiotti, anche lui avvocato, e insieme si legarono in amicizia con
Antonio Mazzetti, magistrato di valore, amante dei libri, della
poesia e della storia.
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La sconfitta a Lipsia
di Napoleone Bonaparte, che aveva soppresso in precedenza il
Principato vescovile di Trento, riportò con la Restaurazione il
dominio dell’Impero austroungarico nel Lombardo-Veneto. Da suddito imperiale
ricevette la nomina a giudice di tribunale e lui, il cui sogno era
diventare un principe del foro, l’accettò malvolentieri per non fare
un torto alla famiglia e si dimise dalla massoneria. All’inizio si
occupava di inquisizioni ordinarie a Trento, ma la sua bravura non
passò inosservata.
Aveva la
capacità di condurre velocemente a termine procedimenti penali
importanti e complessi, andando a fondo delle questioni e meritandosi i
decreti di lode dal Supremo Tribunale di Vienna. Era un legalitario e il
suo modello era uno Stato di diritto fondato sulla legalità.
Riteneva l’Impero uno stato multietnico, il solo in grado di assorbire e
far fronte alle degenerazioni nazionalistiche dei territori che ne
facevano parte. Come magistrato, riteneva che
sopra ogni cosa contasse la fedeltà alla legge e al giuramento prestato.
Considerava la legislazione francese, basata sulla pubblicità dei
giudizi e sull’intimo convincimento dei giudici, più garantista rispetto
a quella austriaca, che era più razionale e si fondava sulla prova della
colpevolezza, raggiunta attraverso la confessione del reo, dei correi e
l’acquisizione delle prove testimoniali. Ma poiché quest’ultima agiva in
segretezza, induceva la gente a sospettare che gli accusati non erano
tutelati e che il giudice potesse commettere abusi. E, proprio per
questo, Salvotti
s’impegnò ad agire secondo coscienza, ma non venendo mai meno
all’applicazione della legge secondo la massima
dura lex sed lex.
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Bello d’aspetto e affascinante, di
natura tendente al malinconico e di mente acuta, suddito
fedele, percepiva l’Impero
austroungarico come il naturale erede dell’Impero romano, vedeva male le
spinte nazionalistiche italiane e non confidava nell’unificazione,
neanche dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Gli amici magistrati
erano andati via da Trento, trasferiti nelle nuove sedi di assegnazione,
e lui aspirava al Lombardo-Veneto. Uno come lui, inquisitore
capace e meticoloso nel proprio lavoro, era quello che ci voleva per la
Commissione speciale, che doveva processare i patrioti arrestati nel
Polesine. E così fu assegnato prima a Venezia e in seguito a Milano.
Villa, Foresti, Arrivabene, Maroncelli, Pellico, Confalonieri e altri,
tutti cospiratori anti-austriaci,
colpevoli di alto tradimento, furono da lui inquisiti e condannati. Lui
sapeva farli parlare e confessare quei patrioti. E anche tradire la
causa e i compagni! La pena era quasi sempre la condanna a morte,
commutata poi dall’imperatore in lunga pena detentiva. E, tuttavia,
sorprende il fatto che condannati come Maroncelli, Pellico, Villa e
Arrivabene gli scrivessero per ringraziarlo della sua umanità e
imparzialità, oltre che per i libri che faceva pervenire loro nel
carcere.
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Il luogo di detenzione
dopo la condanna era la terribile fortezza dello Spielberg in Moravia,
nell’attuale Repubblica Ceca. Anche
Silvio Pellico
vi fu sottoposto al carcere duro per 10 anni e scrisse
Le mie prigioni, che, per il suo
contenuto, all’Austria fece più male di una guerra persa.
L’operato di Antonio Salvotti ha sempre
diviso gli storici e, probabilmente, certi pregiudizi nei suoi confronti
hanno ancora il loro peso. All’epoca dei processi, nell’ambiente
milanese in cui operava era visto come il
“geniale aguzzino al soldo dell’Austria”. Ma la verità è che non era lui
a comminare le pene ai condannati. Infatti, a conclusione dell’iter
processuale, lui faceva solo una proposta, ma la condanna, quasi sempre
con forte aggravio di pena, era emessa da altri in nome dell’imperatore
o dal sovrano stesso. Prima di morire era alle prese con la scrittura
delle sue memorie, nel disperato tentativo di affrancare il proprio
operato dai giudizi negativi che lo riguardavano, ma l’opera rimase
incompiuta. Nel tempo, alcuni autori hanno cercato di
riabilitarne la figura e l’operato. Il primo a difendere l’operato del
Salvotti fu l’amico Paride Zaiotti, con un libro scritto su incarico del
governo austriaco, e per questo ritenuto dai contemporanei poco
credibile. Fu poi la volta di Alessandro Luzio, che nel 1901 ne rivalutò
la figura a livello storiografico invitando a
“non parlare di Salvotti come di un mostro”. Successivamente fu
lo storico trentino Augusto Sandonà che, consultando le carte
processuali, e pur non affascinato dalla figura del Salvotti, rivelò,
con il suo Contributo alla storia dei processi del Ventuno e dello
Spielberg, i comportamenti per
nulla eroici di molti dei patrioti italiani condannati.
La sconfitta a Lipsia
di Napoleone Bonaparte, che aveva soppresso in precedenza il
Principato vescovile di Trento, riportò con la Restaurazione il
dominio dell’Impero austroungarico nel Lombardo-Veneto.
Da suddito imperiale
ricevette la nomina a giudice di tribunale e lui, il cui sogno era
diventare un principe del foro, l’accettò malvolentieri per non fare un
torto alla famiglia e si dimise dalla massoneria.
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All’inizio si
occupava di inquisizioni ordinarie a Trento, ma la sua bravura non
passò inosservata.
E lo Spielberg pare che fosse
addirittura migliore delle carceri del Lombardo-Veneto. E ad
amputare la gamba a Maroncelli, pare che siano stati i tre chirurghi
inviati da Vienna e non il barbiere del carcere, come si legge ne Le mie
prigioni. Per tutto questo,
onestamente, non si può ritenere che tale stravolgimento d’immagine
e di fatti sia tutto frutto e colpa della perversa macchina
poliziesco-giudiziaria, messa a punto per torchiare i cospiratori
antiaustriaci. A scorrere il romanzo della Garavini, sembra che il
suo punto di vista di scrittrice non si discosti da quello del
Salvotti.
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E proprio quest’aspetto ha sollevato
perplessità e le ha attirato critiche.
La finalità del romanzo pare evidente:
contribuire a una memoria pacificata e a una storia condivisa, e
riabilitare nel contempo la figura del Salvotti. Ma si sa che ciò è impresa difficile se
non ardua, anche se, tra una decina d’anni, saremo a due secoli dai
fatti del Risorgimento inquisiti dal Salvotti. E poi, l’Italia è un
paese difficile in quanto a condivisione della memoria, e il passato,
anziché unire, divide. A Trento e a Lavis (Tn), sono dovuti passare
novanta anni per attaccare ai muri delle lapidi anonime alla memoria
delle migliaia di soldati trentini, caduti nella Prima guerra mondiale
combattendo nell’esercito austriaco. Sotto il Fascismo erano stati
cancellati e poi dimenticati. A Bolzano sono ricorrentemente contestati
il Monumento alla Vittoria e il bassorilievo con Mussolini a cavallo. E
ne sa qualcosa pure il giornalista e scrittore Giampaolo Pansa: ne ha
pagato lo scotto cercando da qualche anno, con le sue pubblicazioni, di
pacificare il nostro paese a riguardo della lotta partigiana e degli
eccidi commessi da alcuni partigiani nell’immediato secondo dopoguerra.
Tornando al Salvotti, due drammi
familiari, gravi e dolorosi, colpirono la sua vita privata. Il primo
riguardò la moglie, Anna Fratnich, detta Nanni, bella, colta, talentosa,
brava al pianoforte e pittrice, conosciuta a Venezia e figlia del
presidente dell’Appello generale di Venezia von Fratnich, morta giovane
per cancro al seno tra atroci sofferenze, lasciandolo vedovo con due
bambini. Il secondo riguardò il figlio Scipio, che si sarebbe laureato
in medicina. Ironia della sorte, egli aderì alla
Giovane Italia di Mazzini e ne fu un
attivissimo collaboratore. Fondò con altri giovani una società
segreta, il Santo Sinodo, con l’obiettivo di un’Italia repubblicana.
Praticamente le sue scelte andavano tutte in senso contrario all’operato
paterno. Arrestato e condannato a morte per alto tradimento nel 1853, fu
graziato e scarcerato dopo quindici mesi e confinato, con l’obbligo di
chiedere il permesso all’imperatore per rientrare negli Stati austriaci.
Ciò procurò grande dolore e sofferenza al padre, che, in ossequio alla
legge, si adoperò solo per un suo trattamento umano nelle carceri e si
dimise da consigliere dell’imperatore. Il figlio si rifiutò di rientrare
in famiglia e ritornò a Trento solo negli ultimi anni di vita di suo
padre. Nel 1876 sarebbe stato di nuovo arrestato, per aver scritto
sonetti irredentisti e lettere con cui invitava alla sollevazione contro
l’Austria. Fu condannato a quindici mesi di carcere e poi all’esilio.
Morì a Bologna nel 1880 e fu sepolto a Mori nella tomba di famiglia.
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Il 15 ottobre 2008, il romanzo
della Garavini veniva presentato, nella Sala degli Affreschi della
Biblioteca comunale di Trento, dallo storico Graziano Riccadonna e
dalla scrittrice Isabella Bossi Fedrigotti – che avendo recensito il
libro sul Corriere della Sera,
si è attirata gli strali del presidente di un circolo mazziniano –,
assieme al tris-nipote di Antonio Salvotti, l’architetto Gianleo,
che vive nella villa sul colle di S. Giorgio, dove la famiglia
d’origine si trasferì da Vienna all’inizio dell’Ottocento. Sua
madre, dalla sensibilità dannunziana, era figlia del podestà di
Trento Paolo Oss Mazzurana e gli ha
tenuto compagnia fino al 2002, anno in cui è deceduta all’età di 101
anni.
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Architettonicamente la villa è un
ibrido, ma per ciò che contiene al suo interno, in quanto ad arredo,
quadri, suppellettili e libri, ha l’aspetto di una villa-museo, dove
tuttavia si percepisce ancora la vita. È in un parco di cinque
ettari cinto da mura, con giardini e alberi secolari maestosi e vi
si trova una cappella con una croce longobarda e statue alate.
La Villa Salvotti di Mori, invece, col
suo ricco patrimonio di immobili, terreni e oggetti
d’arte, è stata donata, dalla
baronessa Anna Maria Salvotti, ai bambini bisognosi
dell’Unicef e parte dell’arredo è stato recentemente venduto all’asta a
Trento.
Gianleo Salvotti dava un contributo
personale alla serata ricordando non solo com’era vissuta in famiglia la
memoria del proprio avo, ma riferiva pure come lui stesso e sua sorella
fossero costretti a subire a scuola, sotto il Fascismo, la
commiserazione di un’insegnante per il fatto di discendere da un
austriacante come il Salvotti. Aggiungeva pure che, sempre in quegli
anni, fu girato un film in cui risultava gravemente offesa la figura di
Antonio Salvotti. La famiglia portò in tribunale il produttore della
pellicola, ma perse la causa, perché secondo il giudice, trattandosi di
opera dell’ingegno, vi era libertà d’interpretazione dei fatti storici.
Scheda dell’autrice e
del libro
Fausta
Garavini, studiosa e traduttrice di letteratura francese e occitanica, è
stata docente alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. Ha
pubblicato, a partire dal 1966, diversi saggi e traduzioni su Montaigne
e sulla lingua d’oc. Redattrice di
Paragone-Letteratura, ha
pubblicato molti racconti nella rivista e alcuni romanzi, tra cui
Uffizio delle tenebre,
editore Marsilio, 1998, e
Parigi e provincia, editore Bollati Boringhieri, 1990. Anche se non
si è occupata di storia in senso stretto, come studiosa ha avuto a che
fare con documenti d’archivio, epistolari e autobiografie. In
nome dell’imperatore, di 324
pagine, è pubblicato da Cierre edizioni di Verona, prezzo di copertina €
12,50. Nella nota finale del libro, l’autrice ringrazia tutti coloro che
l’hanno aiutata nella ricerca, fornendole consigli utili, e menziona il
Fondo Piancastelli della Biblioteca Comunale i Forlì, l’Archivio di
Stato di Milano, la Biblioteca Comunale e l’Archivio di Stato di
Mantova, la Biblioteca Comunale di Trento e la Biblioteca Civica di
Trieste, dove sono custodite le fonti del romanzo. Ci tiene anche a
rimarcare che ciò che è scritto nel libro “poggia
su un’accurata documentazione”.
(Questo articolo,
scritto per la rivista trentina
Judicaria e
per il Corriere-quotidiano
dell’Irpinia, è nel sito
www.angelosiciliano.com).
Zell, 18 novembre
2008
Angelo
Siciliano
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