IL DOPO SCOTELLARO: TRASFORMAZIONI EPOCALI

NEL MONDO CONTADINO MERIDIONALE


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Percorrendo in auto le strade del Mezzogiorno d’Italia, in Irpinia, Puglia, Basilicata e Calabria ci s’imbatte spesso in antiche masserie e case agricole abbandonate. I loro muri perimetrali resistono ancora alle ingiurie del tempo, ma i tetti sono in parte o in tutto sfondati. È la conseguenza dell’abbandono, a seguito dei notevoli cambiamenti succedutisi, anche nel mondo contadino, nella seconda metà del Novecento. Le masserie, le Regiae massariae, erano il sistema d’organizzazione feudale dell’agricoltura, introdotto nel XIII secolo dall’imperatore Federico II, giunto sino a noi a metà Novecento. Ad occhio, s’intuisce che alcune di quelle masserie dovevano essere splendide, quando erano abitate e funzionanti, con centinaia di ettari di terra coltivata. Ancora oggi se ne può immaginare il decoro e la vitalità. Orgogliosi dovevano esserne i massari, che di solito ne erano gli affittuari, perché i proprietari, nobili o borghesi, risiedevano in città. I massari, che giravano a cavallo o col calesse (sciarabàllu), da quelle case-aziende gestivano, da padroni assoluti, stuoli di lavoratori ingaggiandoli nelle piazze dei paesi. Qui si radunavano i braccianti (jurnatiéri), che accorrevano talvolta anche da paesi lontani, per offrire le proprie braccia, dove si presumeva che vi fosse lavoro a sufficienza. Alcuni dei lavoranti per i massari, per la verità solo una piccola minoranza, erano assunti a metà agosto, con contratto annuale, e prendevano servizio l’otto settembre successivo. Si trattava di ualàni (bifolchi, bovari), lavuratóri (uomini in grado di svolgere differenti tipi di lavori), serve, picuràli e purcàri (pecorai e porcai). A parte le serve, erano detti tutti uarzùni (garzoni) e facevano ritorno alle proprie case ogni quindici giorni (quinnicìna), per rinsaldare il rapporto affettivo familiare, per la pulizia personale e la biancheria pulita. Lo ualànu era il capo dei dipendenti del massaro. Ne aveva la responsabilità, era pagato meglio degli altri, ma si alzava all’una di notte, per avviare le mucche al pascolo, e di giorno arava la terra con un aratro (pirticàra) tirato da due buoi aggiogati (rétina, parìcchju di vuóvi). Grave era lo sfruttamento del lavoro minorile sia nelle campagne che nelle botteghe artigiane. Già dall’età di cinque o sei anni, i minori, senza distinzione di sesso, erano obbligati a collaborare nel lavoro dei campi con i propri familiari. Alcuni maschietti erano affidati dalle proprie famiglie ai massari, come uarzùnciéddri, e lavoravano per anni interi come pastorelli. La loro paga annuale era costituita di solito da un maialino, che era ritirato dalla famiglia di appartenenza. Crescevano da analfabeti e tornavano a casa dalle proprie madri, solo in occasione delle feste religiose importanti che si tenevano in paese. Anch’essi potevano cambiare padrone a metà agosto. I dipendenti assunti per un anno intero erano detti salariati fissi, perché avevano diritto a ricevere vitto e alloggio dal massaro. Percepivano il salario per l’intero anno, sia in denaro che in beni, cioè grano, formaggio e maialini da fare allevare alle proprie consorti. Alcuni uarzùni ottenevano, dal massaro, la concessione di qualche pezzo di terra a mezzadria (tèrr’a la parte), da far coltivare alle proprie consorti. I braccianti, invece, erano assunti a tempo determinato, manodopera per i lavori più vari: zappatori, mietitori, raccoglitori, potatori, boscaioli ecc.. Erano pagati a giornata. Un’altra figura rilevante era il fattore. Egli curava gli interessi, facendone spesso le veci, del grande proprietario terriero che aveva scelto di dedicarsi personalmente alla coltivazione delle proprie terre, senza cederle a un massaro. Le colombaie delle masserie sono disertate da decenni dagli abituali frequentatori, i colombi. In qualche edificio rurale abbandonato, se i locali a piano terra sono ancora agibili, li si adopera come deposito di macchine e attrezzi agricoli, e non è raro notare, all’esterno di queste strutture, qualche carcassa malconcia di vecchia auto, in disuso e non rottamata, monumento involontario della civiltà tecnologica che è mutata velocemente. Molte case rurali furono edificate e consegnate ai contadini con i terreni agricoli circostanti, in attuazione della Riforma agraria. Spesso i criteri spartitori erano clientelari, ma quelle case furono abbandonate quasi subito, non appena ci si rese conto che le condizioni di vita erano misere, a causa di un reddito insufficiente, anche per una minima sussistenza. Oggi sono dei ruderi e rappresentano la parte più evidente degli avanzi della civiltà contadina, che ha tentato di innovarsi soccombendo alla modernità. Testimoniano di epoche in cui il 70-80% della popolazione, per lo più analfabeta, traeva sostentamento dalla coltivazione della terra e in parte dall’allevamento del bestiame. Sono i resti di una civiltà secolare, probabilmente millenaria, a cui l’archeologia sociale e l’antropologia, se non l’avessero già fatto, potrebbero rivolgere con profitto la propria attenzione. Il tempo provvederà a cancellare tutto, sotto l’azione disgregatrice degli agenti naturali. La società del passato era divisa in classi e i contadini ne rappresentavano quella più umile. Ma lo stesso mondo contadino era variegato e diverse categorie o sottoclassi lo caratterizzavano. C’erano i contadini che abitavano in paese, che si recavano in campagna solo per lavorare la terra da cui traevano sostentamento, e quelli che vivevano stabilmente in campagna (zacquàli di fóre), nelle case rurali. Anche i massari vivevano in campagna, ma avevano più potere e sostanze, e in genere stavano economicamente meglio di tutti. I contadini che coltivavano poca terra, di proprietà o in affitto, per poter vivere dovevano integrare il proprio reddito lavorando anch’essi presso terzi come braccianti, per alcune settimane l’anno. C’erano poi i braccianti e i garzoni. I primi vivevano in assoluta precarietà, con la speranza di essere scelti e ingaggiati come lavoratori giornalieri, mentre i secondi potevano contare su un salario annuo sicuro. Alcuni pastori allevavano un certo numero di pecore e capre. A volte erano le mogli, le pastore, a condurre le bestie al pascolo lungo i sentieri erbosi comunali o demaniali. Però dovevano fare attenzione a che le siepi private confinanti non fossero danneggiate dalle proprie capre, perché il rischio era di doverne rispondere ai proprietari. Costoro, in caso di danno, constatato alla presenza di testimoni, potevano ricorrere alla perizia di un perito agrario e pretendere d’essere risarciti (purtà lu ‘ngigniéru e ffà pavà lu cignàle). Lungo il tragitto le pastore filavano la lana cardata, che tenevano avvolta in un grembiule (vandisìnu), adoperando il fuso, e la sera avrebbero sferruzzato per fare le calze. D’inverno, per scaldarsi, portavano con sé un recipiente metallico (cuócciu o buàtta) con del fuoco acceso dentro, che alimentavano con rametti secchi raccolti strada facendo. I ciucai si guadagnavano da vivere effettuando trasporti per i piccoli borghesi e quei contadini che non possedevano bestie da soma. Tra tutte queste sottoclassi c’era una netta distinzione, seppure invisibile, e talvolta tra i loro appartenenti si consumavano vere e proprie intolleranze, anche umilianti. La promozione sociale riguardava in genere solo i figli dei massari che, grazie ai mezzi paterni, si potevano dedicare con successo agli studi e avere così modo di accedere a posti di rilievo nella società, e diventare dei piccoli borghesi. Da decenni è scomparsa l’aia. Fino a metà Novecento su di essa si procedeva alla trebbiatura (scugnàni) dei cereali, con l’ausilio delle bestie: asini, cavalli o buoi che pestavano i covoni trascinando, agganciato a una lunga corda, un pesante masso (tufu). Si lavorava in mezzo al baccano e alla confusione, secondo una tradizione consolidata. I contadini più poveri, la trebbiatura la facevano a braccia, adoperando forconi e lunghe mazze ricurve in punta, con cui battevano i covoni. Spesso le famiglie si aiutavano vicendevolmente, non solo tra parenti, e il tutto favoriva un clima di socializzazione e solidarietà. Pian piano anche al Sud si erano andate diffondendo le trebbiatrici meccaniche (màchini ca scógnunu). All’inizio del Novecento arrivarono quelle funzionanti a braccia, con una grande ruota che faceva da volano. Poi furono introdotte quelle a motore. Questo era autonomo e alla trebbiatrice era collegato con una lunga cinghia di trasmissione. In tutti i casi una moltitudine di uomini, donne e ragazzi lavoravano alacremente sull’aia, per giorni o settimane, ammazzandosi di fatica. Si respirava polvere e si sudava tanto con la canicola di luglio e agosto, per mettere da parte il raccolto dei cereali per l’inverno e anche la paglia per le bestie. Poi, a partire dagli anni Settanta, le mietitrebbiatrici autolivellanti, in grado di operare anche sui declivi delle colline, hanno risolto ogni problema con la mietitrebbiatura effettuata direttamente nei campi coltivati e la consegna, ai relativi proprietari, dei sacchi pieni di grano a domicilio. Da decenni sono scomparse le spigolatrici, affascinanti figure ottocentesche, celebrate nei dipinti e in qualche opera letteraria. Esse raccoglievano tra le stoppie le spighe cadute ai mietitori e ne facevano mannelli da battere poi con mazze o forconi, per separare il non molto grano dalla paglia. Sono scomparse queste attività, gli animali e tutti gli attrezzi adoperati. L’emigrazione, che agli studiosi ha fatto scrivere d’esodo biblico, è stata una valvola di sfogo fondamentale per le masse contadine meridionali, che aspiravano a migliorare le proprie condizioni di vita e conquistarsi una qualche promozione sociale, tra insidie e difficoltà, in città o nazioni sconosciute, spesso ostili agli immigrati. Essa ha solo accelerato un declino inevitabile, perché la terra, a differenza dell’industria e degli altri settori economici emergenti, non offriva prospettive di sviluppo allettanti. Con la progressiva scomparsa del dialetto, e di quel poco che ancora sopravvive della civiltà contadina, l’opera si va completando. Un capitolo si sta chiudendo definitivamente. Ne serberanno memoria gli archivi, le biblioteche e i musei etnoantropologici. È mutato anche il paesaggio rurale in questi decenni, sia per l’introduzione di nuove colture che per l’uso diffuso delle macchine agricole che hanno sostituito il lavoro umano. L’aratro meccanico ha contribuito a rendere spogli d’alberi i campi destinati alla cerealicoltura, alla coltura del tabacco e dei pomidori. In qualche caso ha anche cancellato antiche necropoli, situate poco profonde rispetto al livello del terreno coltivo. Su molte colline sono stati piantati alti pali con eliche. Sono i simboli nuovi dell’energia rinnovabile e di un ambiente meno inquinato. I centri storici di molti paesi, anche a causa dei terremoti, sono stati aggrediti dal cemento armato e il loro aspetto è notevolmente mutato rispetto ai decenni passati. Col tempo i braccianti sono spariti come categoria di lavoratori. Nel secondo dopoguerra erano stati tutelati nei loro diritti dalle Camere del lavoro, organizzate a livello comunale. Poi avevano subito per anni il triste fenomeno del caporalato. In questo caso erano dei mediatori illegali, i cosiddetti caporali, ad assumerli e accompagnarli sul posto di lavoro, per conto dei datori di lavoro. A fine giornata, i caporali trattenevano per sé una parte della paga spettante ai lavoratori. Sono spariti pure i ciucai, i cavallai, i carrettieri e i carbonai. Anche altre categorie sono scomparse e con esse i mestieri. Basti pensare a tutta la moltitudine d’artigiani che animavano i vicoletti e i quartieri dei paesi: calzolai, sarti, falegnami, secchiai, ramai, stagnari, fabbri, maniscalchi ecc.. Il falegname (falignàmu, mastu) era una di quelle figure che, con la sua opera, scandiva la vita della comunità, dalla nascita alla morte. Creava culle, madie, tavolieri, infissi, mobili e bare. La maggior parte dei mobili oggi è prodotta industrialmente e ci si approvvigiona al Nord. Sono spariti i cantinieri e le cantine, luoghi della mescita del vino, dove gli uomini si riunivano la sera o nei pomeriggi festivi. Chiassosi, giocavano alla morra o alle carte, scordandosi delle angustie quotidiane. D’inverno, col bel tempo, si sfidavano a bocce negli slarghi dei paesi. Al momento che più contava, quello della bevuta, pur di far dispetto a compagni ed avversari, tracannavano il vino senza preoccuparsi dell’ebbrezza. I ragazzi si accontentavano di molto meno. Si disputavano con la trottola (strùmmulu), col gioco sotto il muro (azzécch’a mmuru) o col gioco delle mattonelle (stacciu), bottoni o monetine. Da decenni sono sparite le trattorie e le taverne nei paesi, dove si poteva mangiare o alloggiare, anche con il proprio asino, mulo o cavallo, per poche centinaia o migliaia di lire. Girando per i mercati settimanali e le fiere dei paesi, non si riscontra più un attrezzo agricolo, tipo zappa, falce, accetta, roncola o coltello che sia prodotto ancora a mano, con perizia e maestria, da un fabbro nella sua fucina. Ciò che si può osservare o acquistare sono i prodotti seriali dell’artigianato industriale, di rozza e frettolosa fattura, e materiale scadente. Anche in questo è scomparso o mutato il mondo contadino e il suo indotto. Da alcuni decenni la plastica, nelle sue svariate forme, ha rivoluzionato la produzione d’oggetti d’uso quotidiano che, grazie al basso costo, hanno trovato larga diffusione e invaso anche il mondo contadino, contribuendo a renderlo inautentico o fasullo. Un’altra figura emblematica che è sparita da decenni nei paesi del Sud, è il banditore, divulgatore ufficiale di fatti e notizie che potevano interessare la comunità. Dopo un lungo squillo di tromba, egli comunicava ai compaesani l’arrivo in paese di qualche venditore ambulante con mercanzie a prezzo conveniente, il nome della cantina che aveva esposto la frasca per la mescita del vino nuovo, gli obblighi amministrativi da ottemperare su disposizione del sindaco ecc.. Di solito il banditore era un tipo pittoresco, sul cui conto si scherzava e ironizzava. Ma la sua era una funzione importante e socialmente utile, ed egli era autorizzato dal Comune d’appartenenza. I contadini non cantano più durante i lavori agricoli. Non si fanno più serenate alle innamorate e le mamme non intonano ninne nanne ai loro bambini. Del ricco e vario patrimonio canoro popolare rimane poco, grazie a qualche volenteroso gruppo folk locale, che si esibisce nelle sagre di paese. Sono spariti anche i poeti contadini e i poeti pastori, i soli capaci d’inventare nuovi canti e melodie, con cui affascinare gli ascoltatori. Sono molti decenni che per le fiere e le feste dei paesi non passano più i cantastorie. Verso il 1970, a Palermo sparirono i cantastorie e i “cuntisti”, cantori e raccontatori di fatti eclatanti di cronaca nera, mafia, briganti e cavalieri. Alla stessa epoca risale, probabilmente, la scomparsa di queste figure popolari  veri e propri artisti di piazza  anche nel resto della Sicilia. Nelle sagre paesane non c’è più traccia o memoria dei venditori di fortuna. Essi esibivano un pappagallino su un trespolo che, tra tanti foglietti piegati e accostati ordinatamente in una scatoletta, a comando ne sceglieva uno, su cui c’era stampata “l’improbabile fortuna” di chi si faceva scucire l’obolo per conoscere il proprio futuro. Sono scomparsi anche i venditori di sorbetto, la cui materia prima, la neve, era prelevata dai nevai (nivére) allestiti, dopo le abbondanti nevicate invernali, in appositi locali attrezzati di montagna. Figure emblematiche del mondo contadino erano le fattécchje, i mavàri e li masti d’attìja (fattucchiere, maghi, guaritori). Ad essi si faceva ricorso per fatture d’amore o di morte, per conoscere la propria sorte o quella d’un figlio disperso in guerra, per guarire da qualche malanno (fa ‘ncantà nu male). Il malocchio (maluócchji) erano in grado di toglierlo in molti, facendo cadere, in successione, tre gocce d’olio d’oliva in una bacinella d’acqua pura e recitando, al cospetto di chi se ne riteneva vittima, qualche formula magica. Le janare, streghe giovani e affascinanti, erano assai temute e molte precauzioni e antidoti, come il sale cosparso per terra, erano posti in atto per evitare che di notte esse penetrassero nelle case, attraverso le fessure delle porte, per importunare e ammaliare le persone in preda al sonno. Le scope di saggina e i falcetti appesi all’interno delle porte erano un diversivo perché si distraessero. Anche la presenza spiritica era molto avvertita e temuta, e i verosimili racconti sui fantasmi spaventavano nottetempo non solo i bambini. Le mammane (vammàni) svolgevano una funzione fondamentale. Si prodigavano per le gestanti contadine, assistendole nel mettere al mondo i figli nelle dimore povere e disadorne. Talvolta, in caso di gravidanze indesiderate, aiutavano le donne ad abortire, infrangendo un divieto perseguito dalla legge. Ma il mondo contadino era capace di slanci e generosità impensabili. Buona parte dei trovatelli (li figli di puttàna), affidati alla Sacra Rota, era allevata da famiglie contadine che, data l’alta moria di propri bambini per selezione naturale, li prendevano in affidamento e li trattavano come i propri figli legittimi, tirandoli su fino al compimento della maggiore età. È rimasto poco o nulla di tutti quei comportamenti ritualizzati che coinvolgevano le comunità paesane nella gestione del lutto: veglia funebre, pianto rituale e consolo. Tuttavia ancora permane la consuetudine della veglia del defunto nella propria casa. Altrove la morte è stata rimossa. Si muore in ospedale e le salme dei defunti attendono negli obitori l’ora del funerale. Finalmente è arrivata l’acqua potabile in quasi tutte le case, grazie alla rete di distribuzione idrica, ma sono scomparse le fontane pubbliche, o meglio quella funzione particolare di utilità sociale, cui esse assolvevano nella società contadina. Erano soprattutto le donne a recarsi alle fontane (jévun’a l’acqua), sia per l’approvvigionamento idrico che per fare il bucato. Questa consuetudine era di fondamentale importanza per le piccole realtà. Consentiva il dialogo tra le persone, che avevano così modo di approfondire la conoscenza reciproca, facilitando la circolazione di notizie e fatti riguardanti gli appartenenti alla comunità. Le ragazze potevano cogliere l’opportunità di farsi notare dai giovanotti e aumentare le probabilità di trovare un buon partito. Sono pressoché scomparse, presso i contadini, le usanze d’allevare e ammazzare il maiale, panificare e cuocere il pane nel forno di famiglia, adiacente alla propria abitazione. Se si va alla ricerca dei sapori antichi e autentici della gastronomia meridionale, riscoperta e rivalutata da diversi anni, come dieta mediterranea, dagli esperti americani e inglesi del settore, chi quei sapori li conobbe e non li ha dimenticati, si accorge di quanto sia difficile ritrovarli oggi. Tuttavia anche al Sud si cerca di stare al passo con i tempi e molti prodotti locali sono salvaguardati col marchio doc o altre forme di tutela, ma la strada, per migliorarne la qualità, diffonderli e imporli sul mercato, appare comunque faticosa e irta di difficoltà. Fino ad una ventina d’anni fa la Lucania, più d’altre aree meridionali, conservava ancora aspetti peculiari dell’arcaicità rurale e, per buona parte, essa era ancora il mondo di Rocco Scotellaro. Ricordo che da emigrato, scorrazzando d’estate per il Sud, visitavo Matera e paesi come Melfi, Venosa, Lagonegro, Bernalda e vi ritrovavo l’Irpinia della mia giovinezza. Quella degli anni Cinquanta e Sessanta, quando le dimore trogloditiche erano ancora normalmente abitate. Ad Acerenza, dove un anno portai la mia famiglia per visitarne la cattedrale, che ancora mi ricorda la chiesa di S. Chiara di Napoli, ritrovai quel vivere simbiotico tra contadini e animali domestici, che oggi si può riscontrare solo in qualche vecchia immagine fotografica. Rocco Scotellaro, figlio di un calzolaio, nacque nel 1923 a Tricarico, nel materano. Nel 1940-41 fu a Trento, dove frequentò la seconda liceo classico presso il Liceo “Giovanni Prati”, ospite della sorella Serafina coniugata a un sottufficiale in servizio in quella città. Ebbe un impatto traumatico con la realtà trentina. Pesava la sua provenienza dal Meridione, ma riuscì lo stesso a stabilire qualche contatto con alcuni socialisti locali. Il suo docente d’italiano fu Giovanni Gozzer, che sarebbe diventato preside, poi il primo provveditore agli studi del Trentino del dopoguerra e, successivamente, ispettore ministeriale per la Pubblica istruzione. Nel 1942, morto il padre, Scotellaro fece ritorno a Tricarico e dovette abbandonare gli studi universitari di Giurisprudenza. Intraprese un’intensa attività politica e sindacale in favore della classe contadina, affinché fossero riconosciuti ad essa quei diritti da sempre negati, tra cui l’assegnazione delle terre. Fu poeta, scrittore, politico e sociologo della classe contadina. Come poeta si colloca in una fase di passaggio del Novecento italiano, quando l’ermetismo vede esaurirsi la sua carica vitale e il neorealismo si avvia ad affermarsi. Scelse la lingua italiana per esprimersi in versi, a differenza d’Albino Pierro (1916-1995), poeta anche lui del materano, nato a Tursi, che optò invece per il dialetto lucano protostorico. Il suo italiano ricalca modi e forme proprie del dialetto. Con accostamenti inconsueti del lessico e originali metafore, la sua poesia rende l’idea dei rapporti di vita aspri di paese e di campagna, in quegli anni cruciali di rivendicazioni sociali e lotta per la conquista del lavoro e della terra. Ha una forte connotazione antropologica, come la prosa dei suoi romanzi, carica di dialettalità, interiorità e senso storico per un mondo che si apre ai cambiamenti, ma non promette certezze. Nel 1943 aderì al partito socialista. Conobbe alcuni personaggi che sarebbero stati per lui veri e propri maestri di vita: Carlo Levi (1902-1975), confinato antifascista ad Aliano in Lucania, medico, poeta, scrittore, autore di Cristo si è fermato a Eboli, che rivelò al mondo lo stato di miseria e abbandono del Mezzogiorno, pittore che l’avrebbe immortalato nel grande affresco di Matera sulla civiltà contadina; Manlio Rossi Doria (1905-1988), meridionalista ed economista; Rocco Mazzarone (Tricarico 1912), medico e sociologo.

Fu organizzatore di lotte contro le disuguaglianze e le ingiustizie sociali.

Con la lista frontista dell’Aratro, fu eletto primo sindaco democratico di Tricarico nel 1946. Fece arrivare l’acqua potabile nei rioni poveri in cui mancava. Istituì l’ospedale, il secondo della provincia di Matera, con attrezzature ospedaliere donate dall’esercito americano e il libero contributo finanziario dei tricaricesi. Ma gli avversari erano in agguato. Subì due tipi di attacchi. Uno d’ordine culturale: gli si rinfacciava d’essere un poeta decadente, per nulla rivoluzionario, capace di mettere in rilievo solo gli aspetti negativi del mondo contadino, tutto sommato una realtà popolare passiva. L’altro era d’ordine politico. Soprattutto Mario Alicata, esponente comunista, lo attaccava accusandolo d’essere prigioniero, assieme a Levi e Rossi Doria, del mito della civiltà contadina e di voler rendere autonomo il movimento contadino da quello operaio. In realtà le polemiche, che il suo operato suscitava, nascondevano questioni e problemi di rilevanza nazionale che riguardavano il ruolo degli intellettuali, il rapporto fra città e campagna, l’alleanza fra operai e contadini. Si colpiva Scotellaro, ma in realtà l’obiettivo era la linea di pensiero del meridionalismo riformista. Risale a quell’epoca la frattura, mai più sanata, tra i filoni delle concezioni meridionaliste su come realizzare lo sviluppo nel Sud. Il riformismo del primo dopoguerra d’uomini come Salvemini, Gramsci, Rosselli e Gobetti sarebbe stato ereditato da Ernesto de Martino, Manlio Rossi Doria, Carlo Levi, Tommaso Fiori e Guido Dorso. Dopo di costoro, purtroppo, ci sarebbe stato solo il vuoto. Scotellaro, da sindaco socialista, subì anche l’onta dell’arresto con l’accusa di peculato. Per lui fu un’esperienza umana, amara e durissima. Al processo che ne seguì, fu assolto per non aver commesso il fatto e poté essere rieletto sindaco nel 1948. L’interesse per la sua attività politica, nuova per quei tempi, attirò in Lucania intellettuali e studiosi. Arrivarono gli americani George Peck e Friedrich Friedmann, per lo studio socio-antropologico della realtà rurale lucana, e Adriano Olivetti, imprenditore e intellettuale illuminato, che creò l’associazione “Movimento di Comunità” per studiare e tentare di risollevare le sorti di Matera. Ma Scotellaro non si sentiva preparato adeguatamente, per affrontare le sfide in vista dei cambiamenti che il secondo dopoguerra imponeva. Ritornò a studiare, questa volta presso l’Istituto Superiore d’Agraria di Portici, diretto dall’amico Manlio Rossi Doria. Lì lo coglieva la morte nel 1953, per problemi cardiaci, tra il dolore e la costernazione di tutti. Rocco Scotellaro ha ricevuto più apprezzamenti e riconoscimenti dagli antropologi e dai sociologi che non dalla critica letteraria. Si è detto e scritto che, grazie ai suoi versi, ai suoi romanzi e testi teatrali, alla sua azione politica e all’indagine sociologica, i contadini sono entrati nella storia. Io da quel mondo provengo e dubito che ciò sia accaduto. Anche se così è stato, tali e tante trasformazioni epocali hanno interessato il mondo rurale, dopo Scotellaro, che i contadini ne sono usciti subito, forse per rifugiarsi definitivamente in qualche museo etnografico. Il mondo rurale di Scotellaro, a cinquanta anni dalla sua morte, non esiste più. Esso si è trasformato nel tempo, si è ammodernato sotto tanti aspetti, ma per motivi diversi non si è sviluppato come ci si attendeva, anche perché le riforme agrarie, attuate negli anni, sono in tutto o in parte fallite. Non c’è più il latifondo, abolito per legge. Non ci sono più i massari e le vaste proprietà terriere, attorno alle masserie, sono state smembrate. Sono scomparsi il patriarcato e il Sud feudale. Dell’occupazione delle terre, delle manifestazioni, dei tanti scontri e delle lotte aspre per la conquista del lavoro, anche con morti tra i contadini e i braccianti  basti ricordare Portella della Ginestra, Montescaglioso, la Piana del Fucino, Avola  rimane memoria solo negli archivi, dove si conservano i documenti e i filmati d’epoca. Non sono bastati la politica della Cassa per il Mezzogiorno, i contributi e i sussidi alle produzioni agricole, della CEE prima e dell’UE poi, ad ancorare le nuove generazioni dei figli dei contadini meridionali alla terra. Anche la cooperazione agricola, quando si è cercato d’introdurla al Sud, senza la cultura e la tradizione del Nord  cooperazione bianca in Trentino e rossa in Emilia , si è rivelata una trappola per i contadini che vi avevano aderito. All’amarezza per una nuova opportunità di sviluppo tradita, si sommava la beffa del non pagamento dei prodotti agricoli conferiti dai soci alla cooperativa. Se in passato un nucleo familiare contadino, anche con diversi figli, riusciva ad essere autosufficiente con una superficie di qualche decina di ettari di terra coltivata, oggi ciò è impensabile e i giovani che ambiscono a uno stile di vita dignitoso con un reddito soddisfacente, ancora una volta sono costretti a cercarsi un lavoro altrove.

In Lucania, attualmente, si estrae il petrolio in Val d’Agri. A Melfi c’è uno stabilimento della Fiat che produce bene. Qualche allevatore di capre controlla i suoi animali col microchip. L’agricoltura è praticata come sempre. I Sassi di Matera, dichiarati dall’U.N.E.S.C.O. patrimonio dell’umanità da salvare e tramandare, hanno ripreso da qualche anno ad essere abitati e a riempirsi di vita, grazie anche agli incentivi del Comune.

Quanto qui si è elencato, attesta sicuramente aspetti importanti e positivi dei cambiamenti della vita attuale in Lucania. Aspetti che si potrebbero estendere in tutto o in parte al resto del Meridione, ma essi attestano comunque uno sviluppo limitato, che permane a macchia di leopardo e non riesce ad espandersi diffusamente sul territorio.

I contadini d’oggi, come quelli di ieri, sono i titolari delle proprie aziende, ma le sfide, che il mercato globalizzato impone loro, in quanto imprenditori, sono difficili da vincere. Nonostante il clima si vada tropicalizzando, permangono alcune aree d’eccellenza, per diverse produzioni agricole nelle regioni meridionali.

In una realtà complessa e dinamica come l’attuale, le informazioni circolano velocemente, la competizione è agguerrita e non consente errori nella programmazione e nel controllo della propria attività produttiva, che va comunque armonizzata con le direttive politiche di Bruxelles.

Le innovazioni produttive sono imposte, da una parte dall’industria, che fornisce le macchine e le nuove tecnologie, dall’altra dalla domanda del mercato. Si produce ciò che gradisce il consumatore e non ciò che piacerebbe al produttore, anche se ci si adopera per orientare i consumi.

In questi anni qualche mucca pazza, purtroppo, è stata riscontrata anche negli allevamenti del Sud. I coltivatori devono fare i conti con gli OGM, organismi geneticamente modificati, che il mercato non gradisce, perché i consumatori li rifiutano o li guardano con sospetto.

Di tanto in tanto si scopre che l’ecomafia ha disseminato, sul territorio meridionale, discariche abusive di rifiuti altamente tossici provenienti dalle industrie del Nord. Nella miniera di salgemma di Scanzano Jonico, ad oltre 800 metri di profondità, si voleva istituire il deposito nazionale per lo stoccaggio di migliaia di tonnellate di scorie e rifiuti radioattivi prodotti nel paese. Poi, dopo le proteste e i blocchi stradali degli abitanti locali, il sito è stato declassato. Verrebbe riconsiderato in futuro come uno dei possibili depositi, da utilizzare assieme ad altri sul territorio nazionale.

All’inizio del XXI secolo il Sud, nonostante il clima favorevole, una varietà ambientale unica e giacimenti culturali unici al mondo, straordinari e allettanti, non riesce a svilupparsi turisticamente come potrebbe. In cambio l’incuria, l’ignavia, la carenza di controlli adeguati sul territorio e certe miopie politiche, complice l’assenza di un’illuminata lungimiranza, consentono che esso sia una sorta di pattumiera d’Italia per i rifiuti e gli scarti industriali più pericolosi.

È annosa la carenza d’infrastrutture al Sud e solo da poco tempo si sta cercando di porvi rimedio. Le reti stradali e ferroviarie sono da sempre inadeguate o insufficienti, come pure i servizi, perché ci si possa sviluppare adeguatamente. Insomma permane rispetto al resto del paese  e l’esito è più sconsolante se il confronto lo si fa con i paesi europei più avanzati  un gap tecnologico e di sviluppo difficilmente colmabile, nonostante l’alternanza dei governi, le rituali promesse e i tentativi d’interventi sul territorio che non hanno portato i frutti sperati. A Rocco Scotellaro, i suoi detrattori rinfacciavano di non aver capito che il futuro della società era la classe operaia e non il movimento contadino, che aveva ormai fatto il suo tempo. Va precisato che il proletariato, cioè la massa degli operai, soprannominati servi della gleba, proveniva dal mondo rurale ed era costituito per buona parte da emigrati meridionali.

 

       Disegno di Angelo Siciliano:(Rocco Scotellaro e le lotte contadine)

 

Per mettere le cose a posto va detto che, dopo la fine della civiltà contadina, il movimento operaio non ha avuto vita lunga. Superati gli autunni caldi degli anni Settanta, il suo declino risale al 1980, dopo l’occupazione della Fiat per 35 giorni e la sfilata di protesta, contro quest’occupazione, da parte dei cosiddetti colletti bianchi per le strade di Torino. Finiva così la classe operaia, anche se gli operai continuano ad esistere e a produrre, come d’altronde i contadini, che oggi si chiamano agricoltori o produttori.

Si tentò in passato di industrializzare il Sud fornendo incentivi alle imprese. Ma il progetto non decollò, neanche dopo l’installazione delle acciaierie di Pozzuoli, ormai smantellata, e Taranto, che hanno prodotto tondini e lamiere per anni con problemi seri d’inquinamento ambientale.

La politica degli anni Settanta e Ottanta, che si basava sull’assistenzialismo, ha cercato in qualche misura di ovviare al mancato sviluppo.

Un altro paradosso è che, essendo entrati da alcuni anni nell’era postindustriale, Torino, patria della Fiat e città d’adozione di masse d’emigrati meridionali, è sulla via della deindustrializzazione. Alcune fabbriche satelliti dell’industria automobilistica torinese, tuttavia, continueranno a produrre al Sud, in Campania, Lucania e Sicilia  precisamente a Grottaminarda, a Melfi e a Termini Imerese , con interrogativi legittimi sia sulle prospettive di sviluppo della loro attività che per la durata nel tempo.

Non si pone più la questione Nord-Sud, che ha acceso ed esasperato gli animi e fatto discutere per decenni. Anche se permane qualche flusso migratorio verso il Nord, la Bass’Italia non crea più situazioni d’inurbamento, con tutti i gravi problemi connessi, nelle città dell’Alt’Italia.

L’Italia, da paese d’emigrazione, è divenuta paese d’immigrazione. Ora è l’immigrazione degli extracomunitari a porre nuovi problemi d’ordine pubblico e di convivenza. È in atto la lotta alla clandestinità, che spesso alimenta attività illecite, non ultimo il rischio di terrorismo. Va sanata e regolarizzata la posizione dei lavoratori stranieri, che sono una risorsa per il nostro paese. Essenziali sono la loro integrazione nella nostra società come lavoratori e il riconoscimento dei diritti acquisiti. A livello politico, si dibatte sulla concessione del diritto di voto agli immigrati.

Lo scenario politico nazionale, dopo la riforma del 1993-94, è totalmente mutato. Con la seconda repubblica sono spariti i vecchi partiti e le ideologie hanno fatto il loro tempo. Con il sistema maggioritario, subentrato a quello proporzionale, e il bipolarismo è cambiato il modo di fare politica, ma al Sud non si notano i ventilati effetti positivi.

Il Nord rivendica maggiore autonomia nella gestione delle proprie risorse, nell’ambito di una riorganizzazione statale di stampo federalista. Questa riforma, se sarà approvata, interesserà tutte le regioni a statuto ordinario, comprese quelle meridionali, che acquisirebbero autonomia di decisione in alcune questioni di vitale importanza per il proprio sviluppo.

Resistono i vecchi sindacati a tutelare i diritti dei lavoratori e dei pensionati.

 

Un fenomeno molto grave, della realtà contadina del passato, era l’analfabetismo. Una vera piaga sociale. Anche se oggi esso è debellato, permane una certa disaffezione scolastica, soprattutto per quanto concerne la scuola media inferiore. Ad essa, paradossalmente, si affianca da anni la disoccupazione intellettuale. I giovani diplomati e laureati meridionali non riescono a trovare al Sud un lavoro confacente agli studi fatti e alle proprie aspirazioni.

Un’altra piaga è il sommerso nei vari settori economici. Le punte più alte di lavoro nero, senza alcuna tutela per i lavoratori, con evasione totale d’imposte e contributi, si rilevano sempre al Sud.

Sono sparite la divisione in classi e le contrapposizioni che caratterizzavano la società del passato.

Se i giovani meridionali di una volta erano fortemente ancorati al proprio mondo arcaico e potevano entrare in contatto con la realtà esterna, solo per via del servizio militare di leva o dell’emigrazione, quelli d’oggi assomigliano ai giovani che vivono nel resto d’Italia, sia per comportamento che per abbigliamento o tipo d’alimentazione. Sono inseparabili dal telefonino, destinatari e veicoli essi stessi del consumismo. Frequentano le discoteche e sono esposti, né più né meno, agli stessi rischi e tentazioni dei ragazzi del Nord. Insomma, si sono annullate le distanze culturali del passato e si può dire che i giovani meridionali, grazie anche alla tivù e agli altri media, hanno attualmente i giusti ideali, le informazioni e l’istruzione idonea per poter contribuire allo sviluppo della propria terra. Ma bisognerà mettere insieme idee e progetti vincenti, combinare le opportune sinergie e reperire le necessarie risorse finanziarie per sperare di realizzare gli obiettivi fissati. Il computer e le nuove tecnologie informatiche potrebbero, grazie ai processi lavorativi con le interconnessioni che consentono il telelavoro, soccorrere i giovani meridionali e favorire la loro permanenza nei luoghi natii. Ma questa è solo una delle prossime sfide da affrontare.

La situazione agricola nazionale non è rosea. L’Italia, da paese agricolo che era, oggi importa più della metà del proprio fabbisogno alimentare. Gli addetti all’agricoltura rappresentano solo il 3% della forza lavoro e in parte si tratta di anziani, in linea con l’invecchiamento demografico italiano. Molti contadini minimi, detti così perché di nicchia, e tanti piccoli allevatori scontano, assieme ai risparmiatori, i crac della Cirio e della Parmalat. Tante aziende agro-alimentari nostrane sono controllate da multinazionali estere.

Il mondo contadino meridionale, nell’epoca della globalizzazione, è attraversato e caratterizzato pure esso da nuovi fenomeni. È diventato multietnico, ma ancora non è interculturale.

Nelle campagne collaborano, sempre più spesso, immigrati extracomunitari. I contadini in età avanzata, la cui aspettativa di vita è migliorata rispetto al passato, devono affidarsi alle badanti, anch’esse extracomunitarie, come fanno i vecchi di città. E pensare che in passato alcune loro figlie, se erano fortunate, si sistemavano come serve presso le famiglie borghesi!

 

Nota

Inizialmente, d’accordo con Giovanni Kezich, direttore del Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina di S. Michele all’Adige (TN), il mio intervento allo SPEA8 (Seminario Permanente di Etnografia Alpina n. 8) del 26 e 27 settembre 2003, “CONTADINI DEL SUD CONTADINI DEL NORD. Studi e documenti sul mondo contadino in Italia a 50 anni dalla morte di Rocco Scotellaro” (gli atti del convegno dovrebbero uscire nel 2004), avrebbe dovuto avere come titolo “Il mondo rurale che è cambiato anche al Sud: quello scomparso di Rocco Scotellaro, un altro, quello irpino, recuperato e rievocato.”

Qualche settimana prima del convegno, su richiesta del direttore Kezich, mi accordavo con lui per un mio intervento così ridefinito nel titolo e nel contenuto:“Un patrimonio ritrovato nel dialetto irpino dell’Ottocento”.

A me dispiaceva cestinare la parte, che nel frattempo avevo già scritto, inerente al mondo scomparso di Scotellaro. Allora, separando e integrando opportunamente con altro materiale quanto prodotto fino a quel momento, sviluppavo due relazioni distinte con i seguenti titoli: “Il dopo Scotellaro: trasformazioni epocali nel mondo contadino meridionale” e “Un patrimonio ritrovato nel dialetto irpino dell’Ottocento”.

Tutte le parole dialettali, innestate nel testo di questa relazione, appartengono al mio dialetto irpino che è molto simile a quello lucano.

Alla memoria di Rocco Scotellaro e Manlio Rossi Doria, intellettuale, meridionalista ed economista di valore, con cui ebbi un breve scambio di corrispondenza nel 1987, dedico la mia poesia Al risveglio, che mi pare ben rappresenti il mutato mondo contadino meridionale.
 

AL RISVEGLIO*

Ascolta l'audio

S’è fatta notte fonda
al paese
dove a ogni casa
il frigo sta alla cantina
la tivù al focolare
non c’è fuoco di quercia
che sfavilli né cunti.

Da tempo una cultura
maligna
s’è troppo radicata
come una donna presa
con forza tante volte
ci si è assuefatti alle violenze.

Al risveglio del cuore
spera un vegliardo tra gli ulivi
con le nacchere tra le dita:
chissà che non torni
ai giovani
la voglia a favellare.

Da CONTROPAROLE, antologia di 13 poeti trentini contemporanei, curata da Giuseppe Colangelo; edizioni ARCA di Trento, 1994.

 

Zell, 25 settembre 2003                                                  Angelo Siciliano

Appendice

MONUMENTO FUNEBRE A ROCCO SCOTELLARO  TRICARICO, MATERA

Opera di architettura moderna degli architetti del Gruppo BBPR Il monumento funebre a Rocco Scotellaro ( 19 aprile 1923- 15 dicembre 1953) fu realizzato nel 1957 su un’area cimiteriale concessa dal comune di Tricarico. Su proposta di Carlo Levi, furono coinvolti nella definizione del progetto, approvato già nel 1955, alcuni prestigiosi architetti milanesi, noti come il Gruppo BBPR, cioè Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers. Non estranei a simili iniziative architettoniche, essi avevano già nel '45 progettato il monumento ai caduti nei campi di concentramento, eretto al cimitero monumentale di Milano, in memoria del loro collega Gian Luigi Banfi, morto a Mauthausen. Nell'ubicazione della tomba di Scotellaro gli architetti privilegiarono il muro di cinta che limita il cimitero di Tricarico verso oriente, da dove in lontananza si scorge la valle del Basento, quel «versante lungo del Basento», che è tema ricorrente nella sua poesia; su di esso ne inserirono uno più alto con un'apertura che inquadrasse tale panorama. Il monumento venne concepito ed eseguito in blocchi di pietra locale incastrati e sovrapposti in modo che l'apertura più ampia della base si andasse restringendo verso l'alto, quasi a simboleggiare un anelito spirituale. Pur firmato dallo Studio BBPR, è probabile che il progetto sia stato ideato da Ernesto Rogers, sulla scia delle suggestioni pervenutegli da Carlo Levi, nonchè dalla lettura di È fatto giorno e delle interviste di Contadini del Sud. Rogers ed il suo gruppo, rappresentanti di quella tendenza del Movimento moderno nota come storicismo, fecero incidere sulle pietre del monumento funebre i versi finali della poesia "Sempre nuova è l'alba", Scotellaro ben sapeva che la storia racchiude il passato nel presente, presagendo il domani, come testimoniano i suoi versi diventati esemplari: «Ma nei sentieri non si torna indietro. / Altre ali fuggiranno / dalle paglie della cova, / perchè lungo il perire dei tempi / l'alba è nuova, è nuova». Belgiojoso, Peressutti e Rogers, esponenti tra i più qualificati di questo movimento, con Ridolfi, Albini, Gardella, Quaroni, portarono la vicenda architettonica dell'Italia alla ribalta internazionale del dopoguerra. La carica ideale che animò il lavoro e l'esistenza di questi architetti traevano origine, peraltro, dal loro coraggioso impegno antifascista, tradottosi nella militanza nel Partito d'Azione. In questo contesto culturale, dunque, la figura e la carica morale di Scotellaro, simbolo delle lotte contadine e del riscatto del popolo meridionale, non poteva non assumere un valore emblematico. Perciò, se «la devozione di Rogers per Scotellaro chiariva, con un monumento funebre, il dovere di saldare in un'unica tradizione la cultura popolare e quella di élite», come afferma Appella, questo poeta diventava, oltre che motivo per rendere più dichiarate le tendenze dell'architettura italiana, anche indicativo dei termini con cui «la cultura del Nord visse in quegli anni le aspirazioni del Sud». Il monumento, che necessita di un’opera attenta di restauro e valorizzazione, assume un alto valore simbolico nell’ottica della promozione della figura di Rocco Scotellaro che oggi più che mai risulta di grande attualità anche fra le giovani generazioni e riscuote interesse da parte di studiosi e intellettuali provenienti da tutta Italia e dall’estero.