Evoluzione e uso
del canto
Il canto è una forma
di comunicazione, talvolta di un’importanza essenziale per gli esseri
viventi sia per gli animali che per gli uomini. Tra gli animali
primeggiano gli uccelli. E se l’uomo ha preso da secoli l’abitudine di
tenerli in cattività, è principalmente per il loro canto, oltre che
per la bellezza del piumaggio. Il canto degli uccelli, anche quello
più melodioso – basti pensare al tordo bottaccio, all’usignolo,
all’allodola, al merlo, al canarino, al cardellino, al verzellino –
assume significati differenti. A seconda del momento o del periodo in
cui esso è esternato può voler dire: richiamo per attrarre la femmina
o per far rientrare il maschio al nido; controllo del territorio;
avviso agli altri maschi di tenersi alla larga; comunicazione ai
propri simili di un pericolo imminente; richiamo per i propri simili
per formare un gruppo o mantenersi compatti nello stormo in volo.
Esiste tra gli uccelli anche il canto sgraziato come ad esempio quello
della cornacchia, dei rapaci diurni e ancora di più dei rapaci
notturni.
Anche tra gli animali
vi sono dei mammiferi che adoperano dei suoni assimilabili in qualche
misura a dei canti: i lupi che ululano, le scimmie urlatrici e le
balene.
Ma l’essere vivente
che nel tempo ha saputo meglio affinare il canto e adattarlo, come
vera forma di comunicazione dei propri sentimenti, è senza dubbio
l’uomo. Da quando ha cominciato a adoperare la scrittura, non solo ha
testimoniato l’uso del canto, ma ne ha tramandato anche dei testi
scritti. E così sappiamo che nell’antichità si cantava alle corti dei
sovrani, e il canto era associato alla danza. Si cantava e si danzava
in occasione dei banchetti nuziali e delle onoranze funebri. Si
cantava presso i Greci e i Romani, ma anche presso altri popoli
mediterranei.
Col Medioevo si
diffuse il canto cristiano liturgico, di cui c’è rimasta molta
documentazione. Esso influenzò lo stile del canto profano monodico dei
trovatori e dei trovieri, e altre forme canore extraliturgiche.
Nell’esecuzione di
canti e musiche sacri in passato non erano ammesse le donne. Per
questo fatto le parti acute erano affidate agli uomini che cantavano
in falsetto, o ai “castrati”, vale a dire ai maschi destinati alla
pratica del canto sacro come professione, che erano castrati in età
puberale. Sino all’Ottocento questa prassi, che oggi appare singolare
e raccapricciante, era in uso anche per i cantanti in falsetto della
Cappella Sistina: le cosiddette voci bianche.
Nel Quattrocento e
nel secolo successivo, a Firenze fiorì il Canto carnascialesco,
caratterizzato da allusioni e doppi sensi. Era adoperato nelle feste
di carnevale e assurse a dignità letteraria, al punto che incontrò il
favore di Lorenzo dei Medici – autore lui stesso del Trionfo di
Bacco ed Arianna – e che trovò seguaci in poeti come il Poliziano,
l’Alemanni, il Nardi, il Giambullari, il Varchi, il Lasca e
addirittura il Machiavelli.
I riti carnevaleschi
che si sono conservati o sono stati recuperati e rivalutati in Italia
a varie latitudini, hanno canti che non sono distanti da quelli in uso
a Firenze.
Accanto alla musica
sacra, classica o lirica, considerata musica d’arte, i canti popolari
hanno conservato la loro importanza. Nel tempo si sono evoluti
anch’essi riflettendo gli avvenimenti storici, i cambiamenti sociali e
di costume.
In passato avevano
largo seguito i cantastastorie, che affascinavano i presenti
ripercorrendo le gesta di Orlando, la triste storia della baronessa di
Carini, il vissuto del brigante calabrese Giuseppe Musolino e la
cronaca attinente il bandito siculo Salvatore Giuliano.
Le sacre
rappresentazioni che si tenevano nei secoli passati nelle chiese, e
forse anche nelle piazze dei paesi, in occasione della ricorrenza
pasquale, hanno lasciato traccia nel mondo contadino per ciò che
attiene i canti sacri relativi alla Passione di Cristo.
Il Novecento è stato
il secolo in cui si è affermata la cosiddetta “musica leggera” o di
consumo, in contrapposizione a quella colta e impegnata. Nella seconda
metà del secolo si sono imposti i cantautori che, negli ultimi
decenni, hanno messo fuori del mercato delle canzonette i cantanti,
che erano semplici interpreti di canzoni scritte per loro da parolieri
e musicisti. Si è diffusa la consuetudine dei concerti, seguiti da
folle sterminate di giovani.
Tra i canti popolari
del Novecento ha avuto larga diffusione il genere melodico, poi
soppiantato dalla musica rock, pop o rap in tutte le loro evoluzioni.
La gente “si appropriava” di questi canti e imitava chi li aveva
portati al successo. Oggi si potrebbe dire che il canto è delegato ai
soli cantanti e cantautori. La gente non canta più. Nessuno fischietta
un motivo musicale. Si ascolta solamente. Per la maggior parte delle
persone, divenute consumatori, la musica, infatti, è solo ascolto,
grazie ai lettori di DVD con cuffiette, o agli altri congegni che
offre l’elettronica di consumo.
Si può dire che un
destino peggiore l’hanno subito i canti contadini. Scomparsi i poeti
rurali che i canti li creavano, gli unici che ancora ne hanno memoria
e che, se sollecitati, acconsentono a riprodurli sono i pochi anziani
dialettofoni rimasti. E pensare che vi era una grande varietà di
canti, secondo l’oggetto, l’occasione e la finalità, cantati con varie
tonalità da tantissimi contadini, uomini e donne. Appartengono ormai
alla memoria e ne resta traccia negli archivi di qualche fondazione,
dei musei etnografici e nei libri che nel tempo sono stati editati.
I canti sono stati
una componente fondamentale della cultura orale: una specie di
collante sociale. Erano diffusi da bocca a orecchio e quasi mai
scritti, perché tra i cantori vi era un analfabetismo diffuso. Dato
che erano cantati in dialetto, ne è risultata difficoltosa la
trascrizione. Anche una trascrizione attenta del testo e della musica
non consente, da parte di chi si cimenta in un revival, una
riproduzione fedele alla versione fornita dal cantore dialettofono.
Alcuni cantori-ricercatori ce la mettono tutta per riportare alcuni
canti contadini agli onori della cronaca, ma si potrebbe affermare che
in tutti i casi trattasi di operazioni estemporanee, il cui risultato
più evidente è l’inautencità. Senza tuttavia negare che qualche altro
fine viene raggiunto: una sorta di consumismo canoro che si basa sulla
riesumazione folklorica, che però non lascia traccia, perché i tempi
sono cambiati. In passato cantavano tutti o quasi: i contadini durante
il lavoro nei campi e la trebbiatura arcaica sull’aia; i pastori che
conducevano le mandrie e le greggi al pascolo; gli artigiani nelle
loro botteghe; le donne in casa per accompagnarsi nelle faccende
domestiche, nella tessitura al telaio o per addormentare i bambini; i
frequentatori delle cantine; i portatori di serenate per il
corteggiamento delle ragazze; i viandanti, che nottetempo facevano
ritorno alle loro abitazioni in campagna, per scacciare la paura degli
spiriti o dei lupi mannari; le donne durante la veglia funebre. Si
trattava di canti monodici, in qualche caso a voce alternata.
Rarissimi i duetti.
L’avanzare della
civiltà industriale, la meccanizzazione dell’agricoltura,
l’emigrazione, la terziarizzazione della società, l’era mediatica, la
globalizzazione e – per fortuna – un certo benessere diffuso hanno
contribuito in varia misura a spazzare via questi retaggi del passato.
La civiltà contadina – si potrebbe dire – si avvia a sparire anche
dall’immaginario collettivo, anche se da qualche parte si sostiene che
essa si è solo trasformata nel tempo.
I
canti funebri e la gestione del lutto
I canti funebri,
forse più degli altri canti contadini, hanno sofferto di una vera e
propria cancellazione e si avviano ad appartenere ormai solo alla
memoria scritta o registrata.
Molti studiosi delle
religioni, etnografi e antropologi come Alberto Mario Cirese, Ernesto
De Martino, Alfonso M. di Nola, Giuseppe Pitré, Luigi Lombardi
Satriani e tanti altri si sono occupati diffusamente del lutto, delle
lamentazioni funebri e degli espedienti elaborati per il superamento
del cordoglio, dell’angoscia della fine, del distacco dai trapassati e
in definitiva di quella sorta di rivincita sulla morte.
Non tutti però sono
d’accordo che sia riesumata e rivalutata la tradizione della gestione
del lutto, molto viva nella società patriarcale. Talvolta è manifesto
un vero e proprio ostracismo. Ricordo il senatore ed ex primo ministro
Emilio Colombo di Potenza, che per caso capitò nell’estate del 1993
nel castello di Drena (TN), dov’era allestita una mia mostra personale
di pittura con venti quadri, di cui la metà riguardava la gestione del
lutto. Ebbene, lui mi disse senza mezzi termini che quelle erano scene
da non dipingere e non riproporre alla gente, perché attenevano al
nostro passato di miseria e meritavano di essere cancellate anche
dalla memoria. Esplicitai a lui le ragioni per cui non ero d’accordo
con il suo punto di vista, perché anche queste cose servono a
ricordare i tempi dei nostri avi, che vivevano sì in condizioni misere
ma con grande dignità. In assenza di psicologi e psicoterapeuti, si
può dire che essi escogitarono delle pratiche ritualizzate, per
superare i periodi dolorosi e traumatici conseguenti alla perdita dei
congiunti, evitando così di cadere in depressione.
La ricerca sulla
gestione del lutto e del pianto rituale, cioè l’insieme di operazioni
e di gesti con cui si aiutava il defunto a lasciare questo mondo per
trasmigrare nell’Aldilà, l’ho portata avanti a cavallo degli anni
Ottanta e Novanta del Novecento. Inizialmente me ne sono occupato da
creativo, attraverso la ricreazione di alcuni testi e la ricostruzione
iconografica della veglia funebre e dei catafalchi. Poi, con
l’esperienza acquisita come ricercatore sul campo, ho imparato a
cantare i canti funebri. Ne ho anche registrato un paio dalla viva
voce dei miei informatori e ho proceduto poi alla trascrizione dei
testi.
Nel mondo greco erano
le ancelle e le etere a produrre i lamenti funebri, mentre in quello
romano erano le prefiche a dirigere i cori di ancelle che eseguivano
il lamento in onore del trapassato. Nel mondo contadino erano le donne
della famiglia del defunto a vegliarlo, a intrattenere con lui un
dialogo come se fosse ancora in vita e a inventare a intermittenza le
frasi della nenia funebre, improvvisando sul vissuto e sulla
personalità del defunto.
È probabile che sulle
modalità di svolgimento e sul contenuto delle lamentazioni funebri dei
contadini meridionali, qualche influenza l’abbia esercitata
l’omiletica chiesastica bizantina.
La cultura della
società attuale ha “espulso” la morte dalle nostre case. Oggi,
soprattutto nelle città, la morte è relegata negli ospedali e le salme
sono temporaneamente accolte negli obitori o nelle camere mortuarie in
attesa del funerale. Quando si muore sulla strada, a seguito di
incidenti stradali, la salma non viene mai ricomposta ed esposta in
casa. Sembra che la morte non competa più ai viventi e così capita che
i giovani la incontrino, inconsapevolmente, nelle cosiddette stragi
del sabato sera o nelle banali liti in cui è tornato di moda l’uso
facile del coltello. È diventata quasi un tabù. Sembra che non ci
riguardi personalmente o che riguardi sempre e solo gli altri. In
passato non era così: la morte era perennemente presente come qualcosa
di familiare. Era sempre incombente, la vita media era corta, perché
la selezione naturale falcidiava tante vite, soprattutto di bambini,
dato che non esistevano i farmaci di cui si dispone oggi.
Importante è il
contesto in cui il canto era creato e adoperato. Solo da pochi anni l’etnomusicologia,
oltre a raccogliere i reperti canori, ha cominciato a registrare anche
le notizie sul contesto in cui si fa ricerca, per poter descrivere
compiutamente l’ambiente e l’etnia di riferimento del reperto
riscontrato.
I momenti salienti
della gestione del lutto erano i seguenti: preparazione della camera
ardente; vestizione della salma e sua sistemazione sul liéttu
murtóre; veglia funebre e pianto rituale; collocazione della
salma nella bara e relativo trasporto; funerale; collocazione della
salma nella camera mortuaria del camposanto dove la bara era lasciata
aperta; lu cunzuólu; sepoltura della salma;
sittimàna di fuócu muórtu; vestimento a lutto
dei parenti del morto; canto del Dies irae.
La camera ardente si
allestiva nella casa del morto. Innanzitutto si inchiodavano i drappi
neri con la frangia di colore oro sulla porta d’ingresso, per
segnalare alla gente che in quella casa vi era un morto. La camera
ardente era rivestita di drappi neri e in mezzo ad essa si addobbava
lu liéttu murtóre, il catafalco, costituito di solito da una
cassa di legno su cui era composta la salma, dopo che era stata
vestita di tutto punto col suo abito migliore e un paio di scarpe
nuove. Ai quattro angoli del catafalco erano sistemati quattro
candelabri con quattro ceri accesi. Ai lati del catafalco si
sistemavano su delle sedie i parenti del defunto. Tutta la scena era
lugubre e impressionante. Insomma, il morto lì era vissuto tra gli
affetti, lì era vegliato e pianto dai parenti. Lì si recavano a
salutarlo e a rendergli onore amici e compaesani.
Per i signori si
allestivano camere ardenti più sobrie. La salma era vestita con un
pigiama e composta in un lettino come se dormisse. Per loro non vi
erano lamentazioni funebri e risaltava un’estrema compostezza
nell’atteggiamento dei parenti.
La nenia funebre era inventata dai
parenti stretti del defunto, normalmente le donne, durante la veglia
che si teneva attorno al catafalco. Ciò rientrava nella serie di gesti
e operazioni ritualizzate, che la psicanalisi considera come l’arcaica
elaborazione del dolore e del lutto fatta a caldo.
Attraverso il canto, i parenti
dialogavano col morto. Gli parlavano amorevolmente, gli rammentavano
le vicende brutte e quelle belle vissute insieme, gli ponevano domande
all’apparenza paradossali, lo rimproveravano affettuosamente, lo
ringraziavano per la saggezza con cui era vissuto, gli si
raccomandavano per il futuro. Insomma, le scene di una vita vissuta
erano riviste come in un filmato. L’intensità dei lamenti, che
diventavano anche urli impressionanti, cresceva quando altri parenti o
amici venivano a rendere omaggio alla salma.
Talvolta anche gli uomini
partecipavano al canto funebre, ma di solito il maschio era restio a
piangere e rimaneva in silenzio per mostrare la sua forza morale,
rispetto al sesso femminile.
Il pianto rituale era come uno
spaccato di teatro popolare, soprattutto quando erano più donne a
piangere insieme, dialogando e alternandosi in una sorta di recita, in
cui ogni frase era inventata al momento. Il massimo dell’intensità
delle lamentazioni, con toni strazianti, si raggiungeva quando la
salma era collocata nella bara per essere portata via. Per i bambini
presenti, tutta la scena risultava agghiacciante.
A volte le invenzioni in un canto
funebre erano così singolari da indurre, negli estranei che erano
presenti, un sorriso a malapena trattenuto. Poi la cosa era raccontata
per il paese tra l’ilarità generale e circolava anche per anni dopo
l’accaduto.
Altre volte una lamentazione poteva
essere infarcita di finzioni e sentimenti non realmente sentiti.
Insomma anche una lamentazione funebre poteva ammantarsi di ipocrisia
e ciò succedeva, quando bisognava salvare le apparenze agli occhi
della gente.
Non era raro che in qualche caso erano
le piagnone, donne pagate, a piangere per un defunto.
La bara in genere era condotta al
cimitero a spalla da quattro uomini a pagamento. A volte potevano
essere gli amici stretti del defunto ad assumersi questo onere
gratuitamente.
Il defunto benestante era condotto al
cimitero su una carrozza trainata da cavalli e con l’accompagnamento
di una banda musicale, che eseguiva marce funebri lungo il tragitto. A
Montecalvo Irpino, l’ultimo funerale con banda musicale si è celebrato
nel 1989.
Normalmente il funerale era celebrato
con rito religioso. In rari casi, quando il defunto era un suicida, o
un socialista o un comunista sfegatato, il funerale si faceva con rito
civile.
Dopo i funerali si consumava, nella
casa del trapassato, lu cunzuólu, il consòlo. Si
trattava di un pranzo sostanzioso, per rifocillare i familiari del
morto, offerto da amici, compari o parenti larghi. Anche in quest’occasione,
naturalmente, si tessevano le lodi del defunto.
La sepoltura della salma avveniva il
giorno successivo a quello del funerale. Nell’Ottocento, quando ancora
non era stato istituito il cimitero, la sepoltura dei defunti era
disseminata sul territorio. I signori generalmente erano sepolti nelle
cripte delle chiese. Mia nonna contadina raccontava che due suoi
bambini, morti prematuramente, erano stati sepolti in una grotta. In
caso di epidemie si scavavano fosse comuni fuori dell’abitato.
Al momento della sepoltura, si
rinnovavano le lamentazioni funebri, alternate a urla strazianti per
l’addio definitivo al morto.
I parenti stretti del defunto non
potevano accendere il fuoco nel proprio focolare, fino a che non si
fosse celebrata una messa in suffragio. In genere questo periodo,
detto fuócu muórtu, fuoco spento nel caminetto,
durava una settimana, durante la quale erano sempre gli amici, i
compari o i parenti larghi a provvedere a turno ad alimentare, con
pasti quotidiani, la famiglia in lutto.
Il nero era il colore del lutto, come
quello dei paramenti sulla porta, dei veli e dei teli con cui si
allestiva la camera ardente.
Per gli uomini, l’essere in lutto,
comportava la non rasatura della barba per qualche settimana. Si
facevano cucire poi una fascia nera attorno alla tesa del cappello e
ad una manica della giacca; all’occhiello del bavero della giacca
infilavano un bottone rivestito di stoffa nera, fissato con un lungo
spillo che aveva sul retro; indossavano una camicia o una maglia nera,
oppure una cravatta nera sulla camicia bianca.
Per le donne, il lutto poteva essere
intero, e ciò comportava l’obbligo di indossare vesti nere anche per
dieci o venti anni nel caso si trattasse di vedove, oppure lutto a
metà, miézzu lluttu, e in questo caso le vesti,
indossate per un periodo di circa sei mesi, erano "à pois", cioè a
pallini o a fiorellini bianchi su fondo nero. Era il legame di
parentela stretto o largo col defunto a indicare il tipo di lutto, cui
le donne dovevano adeguarsi.
Le donne che vestivano il costume
tradizionale, di norma indossavano già una gonna nera, la vèsta,
e calze nere, perciò, in caso di necessità, potevano adeguarsi al
lutto con relativa facilità: si facevano confezionare un foulard nero
con la frangia, lu maccatùru, e una
camicetta, la cammicètta, nera oppure "à pois".
Il Dies Irae, li diasìlli,
era intonato sia durante il funerale con rito religioso sia il Primo
novembre al cimitero. In questo secondo caso era il prete o un frate,
accompagnato da duji privitiéddri, due chierichetti,
che, passando tra le tombe, dietro richiesta dei parenti del morto, e
in cambio di un’offerta, intonava alcune note di questo canto sacro in
onore del defunto e alla fine benediceva la tomba spruzzando acqua
santa con l’aspersorio.
Il Dies Irae si prestava ad essere
trasformato anche in canto satirico e personalmente ne ho raccolto due
versioni, che attestano un vero e proprio antagonismo di classe,
presente a Montecalvo Irpino nei secoli passati.
Non era raro che certe donne che
presagivano la propria morte, preparassero per tempo gli indumenti,
con cui desideravano essere vestite da defunte, e davano anche
disposizioni precise sul modo in cui volevano che si cantassero le
nenie in loro onore.
A questo testo si allegano due canti
funebri, raccolti grazie agli informatori di Montecalvo Irpino. Un
altro testo, pubblicato nel mio libro Lo zio d’America nel
1988, è nel sito
www.angelosiciliano.com unitamente a dei miei disegni,
che ricostruiscono la veglia funebre, e al Canto della morte.
TATILLU MIJU
Tatìllu mìju,
tatìllu mìju,
c’haji rumàsu ‘mmiézz’a na vìja,
tatìllu mìju!
Ohji che pena chi tinìmu,
tatìllu mìju!
Tatìllu mìju,
quanta gente oggi véne cqua!
Si vede ca ìri malu cristianu,
tatìllu mìju!
Tatìllu mìju,
quannu ci pigliàvi cu cquéddra
curréja,
quanta bòtte chi ci dìvi!
Haji fattu bbuónu!
E mmò ti tinìmu sèmp’a mmènte,
tatìllu mìju!
Tatìllu, nu ‘n c'aviva rumanì,
tatìllu, nu ‘nc'aviva rumanì!
E mmò nun ti vidìmu cchjùni,
tatìllu mìju!
Tatìllu mìju, l’ór’ha ‘rrivàta,
ha ‘rrivàtu puru lu taùtu,
tatillu mìju!
Com’ìma fa, tatìllu!
Pàrlici, dìcci l’ùtima paróla:
tu mò ti n’haja jì,
tatìllu mìju!
Ohji tatìllu mìju, tatìllu mìju!
Tatìllu, quanta cóse c’haji
‘mparàtu:
mi parìvi nu puèta cu cquéssa
vócca!
E mmò nun dici niénti cchjùni,
tatìllu mìju!
Tatìllu mìju, fónte nuóstu,
rre di la casa nòsta:
ti ni vàj’e statti bbuónu,
tatìllu mìju!
Tatìllu mìju,
partiétti pi ssuldat’e mmi
dicìsti:
«’N ti la facénnu cu li
ffémmini,
sinnò cadi malàtu!».
Ohji tatìllu mìju, tatìllu mìju,
che pparóle bbelle so’ state
questi qua!
E l’agghju tinùtu sèmp’a mmènte,
tatìllu mìju!
|
PADRE MIO
Padre mio, padre mio,
ci hai abbandonati,
padre mio!
Ohi che pena che abbiamo,
padre mio!
Padre mio,
quanta gente oggi viene qui!
Si vede che eri un uomo
malvagio,
padre mio!
Padre mio,
quando ci picchiavi con la
cintura,
quante botte che ci davi!
Hai fatto bene!
Ti ricorderemo sempre,
padre mio!
Padre, non dovevi lasciarci,
padre, non dovevi lasciarci!
Ora non ti vedremo più,
padre mio!
Padre mio, l’ora è arrivata
è arrivata anche la bara,
padre mio!
Come dobbiamo fare, padre!
Parla, dicci un’ultima parola:
tu ora devi andartene,
padre mio!
Ohi padre mio, padre mio!
Padre, quante cose ci hai
insegnato:
sembravi un poeta per come
parlavi!
Ora non dici più nulla,
padre mio!
Padre mio, fonte nostra,
re della nostra casa:
te ne vai, statti bene,
padre mio!
Padre mio,
partii per soldato e tu mi
raccomandasti:
«Non andare a donne,
altrimenti ti ammali!».
Ohi padre mio, padre mio,
che parole sagge furono queste!
E le ho sempre avute in mente,
padre mio!
|
Nota
Questo è un canto artificiale, cantato
dal figlio del defunto e da me registrato molti anni dopo il decesso
del padre. È significativo come un’educazione dura subita da ragazzo,
che oggi comporterebbe una denuncia per maltrattamenti
all’associazione “Telefono azzurro”, non abbia lasciato alcun
risentimento verso il genitore, anzi il figlio gliene è ancora grato.
Canto di Felice Cristino, contadino
(Montecalvo, 1921-2010); registrazione del 1990, trascrizione, traduzione e
annotazione di Angelo Siciliano. Pubblicato nel 1999, con traduzione
in lingua e trascrizione musicale, nel volume Canti Religiosi,
curato da Aniello Russo per tutta l’Irpinia.
OHJI MARITU
MIJU,
COM’AGGHJA FÀ
Ohji marìtu
mìju, cóm’agghja fà?
M’haji rumàsa sola, cóm’agghja
fà?
Jé cchi si lu ccridéva, marìtu
mìju!
Che scùrda dint’a sta casa,marìtu
mìju!
E chi si vóle vèste nèura,
marìtu mìju!
‘Ndó t’agghja jì a bbidéni
chjùni,
marìtu mìju?
Jé cquantu béni c’ìmu vulùtu,
cóm’agghja fàni?
E gióvini gióvini ti n’ha jùtu,
cóm’agghja fàni?
Mi dicìvi sèmpe ca stìvi mègliu,
cóm’agghja fàni?
Picché m’haji lassàtu,
marìtu mìju?
E che ppéna ca tèngu ‘nd’à stu
córe,
cóm’agghja fàni?
Mi fa mmale lu córe,
marìtu mìju!
Marìtu mìju,
viénimi ‘n suónnu!
Marìtu mìju, a cchi ha
raccummannàtu
li duji figli?
Marìtu mìju, mi chjam’a ppiett’a
tte,
cóm’agghja fà?
E cche vita dispiràta,
marìtu mìju!
E ttu ìri lu chjù biécchju,
marìtu mìju!
E cquali banchèttu vàji vòggi,
marìtu mìju?
Jé ha ‘rrivàta la spartènza,
maritu mìju!
|
OHI MARITO MIO,
COME DEVO FARE
Ohi marito mio, come devo fare?
M'hai lasciata sola, come devo
fare?
Chi se lo immaginava, marito
mio!
Che buio in questa casa, marito
mio!
E chi vuole vestirsi a lutto,
marito mio!
Dove ti potrò rivedere ancora,
marito mio?
Quanto bene ci siamo voluti,
come devo fare?
Sei morto così giovane,
come devo fare?
Mi rassicuravi sempre che stavi
meglio,
come devo fare?
Perché mi hai lasciata,
marito mio?
Che pena ho nel cuore,
come devo fare?
Mi duole il cuore,
marito mio!
Marito mio,
vienimi in sogno!
Marito mio, a chi hai affidato
i due figli?
Marito mio, portami con te,
come devo fare?
Che vita disperata,
marito mio!
Tu eri il più vecchio,
marito mio!
A quale banchetto sei invitato
oggi,
marito mio?
È giunta l’ora dell'addio,
marito mio!
|
Nota
Anche questo è un
canto artificiale. È il canto di mia madre per il marito Silvestro,
morto nel 1949 all’età di 25 anni a causa di una malaria presa in
Puglia come bracciante nel 1942. In esso si snoda un lungo dialogo col
defunto, cui vengono poste precise richieste e velati rimproveri.
Canto di
Mariantonia Del Vecchio, contadina
(Montecalvo, 1922-2011); registrazione del
1990, trascrizione, traduzione e annotazione di Angelo Siciliano.
Pubblicato nel 1999, con traduzione in lingua e trascrizione musicale,
nel volume Canti Religiosi, curato da Aniello Russo per tutta
l’Irpinia.
Zell, 26 gennaio 2007
Angelo Siciliano