Gli echi lontani di radici
perdute
La ricerca delle proprie radici è un’esigenza che prima o poi,
qualsiasi individuo si sente in dovere
di tradurre in informazioni reali. Talvolta, addirittura, questa
operazione si arricchisce via via di contenuti di sicuro valore
letterario, scientifico, poetico.
Per conseguire traguardi di tali dimensioni, è opportuno
esprimere una gamma di funzioni e di sensibilità di fondo
talmente ampia da poter essere parafrasata senza limitazioni di
sorta. Ne possono nascere trame espressive di diversa tipologia
analitica: con inclinazione alla creatività artistica o alla
riscoperta dell’ uomo attraverso vere e proprie analisi del
contesto sociale. Si tratta di lavori rari, epperò, quando se ne
scopre qualcuno, lo si legge con un piacere nuovo, se non altro
per appropriarsi dei piccoli tesori che in esso si celano,
magari dietro un sottile velo di pudore.
Mi pare che, questo, possa essere il caso dell’ultimo libro di
Angelo Siciliano «Lo zio d’America» (Ed. Menna. 168 pagg., lire
25 mila) di recente pubblicazione. Si tratta di un ‘opera in
versi che può essere letta su diversi piani, compreso quello
antropologico, tesa com’è a ricostruire i tratti di una cultura
( quella di Montecalvo Irpino, un piccolo centro dell’avellinese)
frantumata da esiziali fenomeni migratori, scandita dalle
ricostruzioni mnemoniche di canti, ballate, detti e, perché?,
maledizioni.
Giuseppe Grasso,ordinario di filologia italiana presso
l’università di Trento, pone in evidenza, nella sua breve quanto
pungolante presentazione, come queste “voci”, che esprimono la
miseria e l’emigrazione del Sud, abbiamo trovato in Angelo
Siciliano un vero e proprio (cantore)’, quasi un «depositario»,
solo fino ad un certo punto volontario, di questa porzione di
storia, fatta di dolore, ma anche di ironia e di forza di
vivere. Gli stessi «suoni uditi e scambiati tra le pareti
domestiche scrive Frasso , nella piazza del paese, nei campi,la
storia intera di una generazione , sono penetrati a fondo nel
cuore e nella mente di Angelo Siciliano, che a Montecalvo Irpino
è nato, e li sono rimasti, in paziente attesa di essere
nuovamente chiamati in vita. E questa ricucitura della
tradizione, che l’autore dice di aver cominciato per gioco,
salvo poi ridefinirla lenta mente come «progetto di recupero
culturale», assume, nell’opera di Siciliano, una valenza
artistica profonda, a partire dalla musicalità che i versi
dialettali (a fronte è la traduzione in lingua) esprimono nella
loro disposizione attraverso un mosaico lirico che, come si
intuisce, lascia a chiunque la facoltà di riprodurlo in chiave
linguistica. etnologica. narrativa.
Per questa ragione è facile trovarsi d’accordo con Mario
Sorrentino quando, in prefazione, mette in guardia coloro che
ritengono che la tradizione sia un fedele recupero di ciò che è
stato, «Per me, afferma Sorrentino, tradizione vuol dire ripresa
di forme già morte per farle rivivere», E, in effetti, il lavoro
di Siciliano, i cui tratti possiamo ormai definire
“polivalenti”, è consistito nello scrivere ciò che risultava
essere «cultura vagante’ ciò che veniva lasciato alla memoria
storica popolare e, per ciò stesso, destinato a perdersi nella
labilità del ricordo.
L’opera, quindi, si sviluppa attraverso un accurato recupero
degli elementi portanti della comunità montecalvese: i connotati
del mondo contadino, le contrapposizioni tra questo e la piccola
borghesia di paese. Le rivalità, i rancori, gli odii. il ritorno
dall’America degli emigrati. Tutto contribuisce a delimitare il
«contesto», compresa l’ira di una «suocera mancata”, che ha
visto la figlia ripudiata dal fidanzato per accasarsi con una
svergognata. “incinta grossa / e col latte nel petto” Una cosa
da non credere, un comportamento privo di senso.
Quotidiano l’Adige di Trento – Martedì 27/09/1988
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