DOLOMITI DEL SUD E DOLOMITI DEL NORD

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Montagne simili ma con tante differenze: per la storia geologica della Terra,
per alcune leggende, per il riconoscimento come Patrimonio Universale dell’Umanità…
Ma è fondamentale che la montagna faccia cultura conoscendola e praticandola
 

 
             Dolomiti del Sud
 
Le Dolomiti Lucane si stagliano all’improvviso all’orizzonte, percorrendo in auto la Basentana in direzione nord tra spettacolosi calanchi, dopo essersi lasciati alle spalle Metaponto e lo Ionio da qualche decina di chilometri. Nell’estate del 2009 si poteva volare agganciati con un’apposita imbragatura a un cavo d’acciaio sospeso a 400 metri di altezza, tra le vette di due paesi del Potentino: Pietrapertosa e Castelmezzano, arroccati su costoni rocciosi come due antichi presepi di pietra. Si sorvolavano a volo d’angelo le vette dolomitiche locali, con due linee opposte, godendo di una veduta straordinaria, consueta solo ai grandi rapaci. Chi voleva provare emozioni da brivido, bastava che volasse per più di 1400 m. sfruttando la forza di gravità per circa un minuto e mezzo, ad una velocità mozzafiato di 110-120 km l’ora, su macchie di ginestre, catene rocciose e orridi precipizi.
 

 
I picchi di arenaria, aspri e frastagliati, modellati in modo bizzarro dagli agenti atmosferici, hanno ricevuto nomi strani dalla fantasia popolare: Civetta, Bocca del Leone, Aquila Reale, Gufo. La quota massima è quella del Monte Caperrino, che raggiunge i 1400 metri.
Denominate Piccole Dolomiti Lucane, per la somiglianza morfologica con le Pule delle Dolomiti trentine e le Dolomiti venete, si trovano nell’Appennino lucano, a est della più imponente dorsale Pierfaone-Volturino-Viggiano, al centro dell’omonimo Parco naturale regionale.
La loro origine geologica risale a 15 milioni di anni fa.
Certamente belle, ma, a parte l’unicità del volo d’angelo e i paesaggi mediterranei di cui si può godere, il paragone con le Dolomiti del Nord è impari sotto diversi punti di vista: l’altezza, l’estensione, le varietà geo-morfologiche, paesaggistiche, botaniche e faunistiche, la storia geologica della Terra, nonché per alcune leggende.
 
            Dolomiti del Nord
 
Alla fine del Settecento, le montagne del Tirolo del sud – come si chiamava allora il Trentino Alto Adige, sotto l’Impero austroungarico – erano note come “Monti Pallidi”, per via del candore diafano delle loro pareti calcaree.
 

 

Fu il geologo francese Deodat de Dolomieu, nel 1789, a iniziare lo studio sistematico dei carbonati di calcio e del magnesio, componenti caratteristici di queste montagne. Poi avrebbe fatto parte della commissione scientifica che accompagnò Napoleone Bonaparte col suo esercito in Egitto, ma il suo nome resta legato a una roccia calcarea, Dolomia principale, e alle catene montuose più belle del pianeta: le Dolomiti.

 

 
In periodi geologici molto antichi, le zolle continentali si staccavano dalla Pangèa, unica grande piattaforma emersa nel grande oceano del pianeta Terra, e andavano alla deriva. Forze naturali demolitrici si alternavano a forze naturali costruttrici. Dal globo terraqueo fuoriuscivano enormi quantità di vapori venefici e magma incandescente, che solidificandosi creava piattaforme e rilievi. Spinte tettoniche gigantesche accavallavano, piegavano, fratturavano e deformavano gli strati rocciosi. Sollevavano catene di montagne e interi continenti.
In un contesto di immani sconvolgimenti geologici, 1500 milioni di anni fa comparivano le forme primordiali della flora e della fauna: organismi precellulari e unicellulari del mondo vegetale e animale, che andavano adattandosi all’ambiente più idoneo, il cosiddetto brodo primordiale. In seguito diventavano pluricellulari. Grazie alla selezione naturale e al susseguirsi di infinite generazioni di esseri viventi, nell’alternanza di estinzioni e mutamenti, in milioni di anni essi colonizzavano i mari, i laghi, i fiumi e la terraferma. Nascevano gli ecosistemi, in cui coesistono in equilibrio varie forme di vita sulla terra, che sono giunti fino a noi. L’uomo attuale, diretto discendente dell’homo sapiens, non dovrebbe continuare ad alterarli o peggio a distruggerli.
 

 
La complessa origine geologica delle Dolomiti si fa risalire a 250 milioni di anni fa, quando si formarono in mare le loro fondamenta di rocce sedimentarie ed eruttive.
Nel periodo del Trias, 150 milioni di anni fa, l’Europa meridionale era ancora sommersa dalle acque della Tètide, l’antico Mediterraneo, che, infilandosi attraverso i continenti ora scomparsi, collegava gli oceani d’Oriente con quelli d’Occidente. In quel primitivo mare, come negli attuali mari tropicali, si accumulavano strati di materiali per migliaia di metri, che inglobavano sabbie alluvionali, ghiaie, argille, gessi e calcari. Sulle superfici e sui fianchi di quegli strati, colonie di coralli costruivano banchi e scogliere. Poi succedeva che periodi di eruzioni esplosive sottomarine distruggessero tali ambienti e gli esseri viventi. Sui fondali si ammassavano scheletri madreporici, gusci calcarei e silicei di miriadi di organismi marini grandi e piccoli, che vivevano nelle acque tiepide. Quegli accumuli, in milioni di anni, produssero alti strati di bianchi calcari, rocce silicee di vari colori e marne grigie. Nei periodi di calma la vita ritornava lentamente e si prendeva la rivincita.
Parte delle terre emerse erano frequentate dai dinosauri, che dominarono l’ecosistema per oltre 160 milioni di anni, dalla loro comparsa 230 milioni di anni fa, tra la fine del Triassico medio e l’inizio del Triassico superiore, alla loro estinzione, circa 65 milioni di anni fa alla fine del Cretaceo.
Il primo scheletro di dinosauro italiano fu ritrovato al Sud, nel 1981, da un appassionato di fossili, Giovanni Todesco. Studiato dalla Soprintendenza delle Antichità di Salerno e custodito dal 2002 a Benevento, nel Museo Archeologico presso la Rocca dei Rettori, è un reperto del Cretaceo inferiore, denominato “Scipionyx samniticus”, “artiglio di Scipione del Sannio”, in onore di Scipione Breislak che nel 1798 studiò e segnalò il giacimento di Pietraroja, ricco di fossili, nella zona del Matese a nord-est di Benevento. È un fossile di piccolo di dinosauro, conosciuto col nome di Ciro, per le sue capacità di potente predatore e corridore, che, oltre allo scheletro, ha conservato pure gli organi interni.
 
 
A partire dal 1996 è stata la volta del ritrovamento degli Adrosauri in località Villaggio del Pescatore, presso Trieste, divulgati nel 2009 col nome di “Tethyshadros insularis”, con un esemplare molto ben conservato, il dinosauro Antonio di sesso femminile, il più grande e completo rettile preistorico mai ritrovato in Italia.
Nel 2000 fu scoperto, nei pressi di Varese, un grande Teropode tetanuro, un dinosauro denominato “Saltriosaurus” risalente all’inizio del Giurassico.
Oltre ai resti fossili di dinosauri, in diversi luoghi del nostro Paese sono state scoperte vere e proprie piste di orme di differenti dinosauri: nel Gargano (FG), ad Altamura (BA) e a Sezze Scalo, nel comune di Sezze (LT).
Anche i territori delle Dolomiti preistoriche furono frequentati dai dinosauri e ancora prima dai loro antenati. In alta Vallarsa (TN), una ricerca condotta dal Museo Tridentino di Scienze Naturali, nell’ambito del Progetto di ricerca provinciale OPENLOC, ha scoperto circa 150 orme fossili ai piedi delle Piccole Dolomiti, precisamente sul fianco meridionale della Val Gerlano, a monte degli abitati di Speccheri e Ometto. Sono le prime orme di rettili, precedenti la comparsa dei dinosauri, trovate in provincia di Trento e messe in luce dall’erosione di alcuni torrenti su lastre di roccia.  Riguardano antenati di lucertole, coccodrilli e dinosauri, che risalgono a circa 242 milioni di anni fa. Si ritiene che altre orme, nascoste dalla vegetazione, siano nella continuazione laterale delle stratificazioni rocciose.
Ai Lavini di Marco, presso Rovereto (TN), su un obliquo strato calcareo, liberato da un antico e gigantesco franamento che deviò il corso del fiume Adige, noto come “Ruine dantesche” nel XII canto dell’Inferno, furono scoperte nel 1990 un centinaio di orme di dinosauri differenti per alimentazione, carnivori ed erbivori, risalenti a 200 milioni di anni fa.
Sotto le Tre Cime di Lavaredo, nel territorio del comune di Auronzo (BL), furono scoperte due orme di Carnosauri risalenti a 215 milioni di anni fa.
Su un masso della frana Pelmetto del Monte Pelmo, alla Forcella Staulanza nel territorio del comune di Zoldo Alto (BL), sono impresse alcune decine di orme di Colcurosauri di oltre 200 milioni di anni fa.
Nel Parco delle Dolomiti Friulane sono stati individuati nove massi di Dolomia principale con impronte fossili di dinosauri, appartenenti ad un’epoca compresa tra i 225 e i 217 milioni di anni, nei comuni di Claut, Cimolais e Andreis (PD).
 

 
Circa 60 milioni di anni fa, nel Terziario, la terra assumeva più o meno la configurazione attuale. I terremoti, vere convulsioni apocalittiche, e le spinte orogenetiche corrugavano la crosta terrestre creando le Alpi, gli Appennini, i Pirenei, i Carpazi, il Caucaso, l’Imalaia e le Ande.
Nel periodo successivo, il Quaternario, le glaciazioni e i fenomeni erosivi modellavano colline e montagne, aprivano valli, incidevano solchi profondi sulla superficie terrestre, creavano pianure con le enormi masse detritiche trascinate a valle da acqua e ghiacciai.
Gli splendidi paesaggi dolomitici attuali non sono che la risultanza di fenomeni geologici, metamorfosi continue ed erosioni di massicci, vette e guglie, che talvolta mettono a nudo atolli e scogliere coralline fossili.
Le genti degli ambienti dolomitici vissero per secoli di agricoltura, allevamento del bestiame e di caccia, nella pace delle proprie valli, dedicandosi più tardi all’intaglio e all’artigianato della scultura artistica in legno, che sarebbero diventati poi una risorsa economica importante.
 

 
A partire dal 1870, grazie agli alpinisti inglesi, e poi a quelli tedeschi e italiani, si diffondeva la pratica dell’alpinismo ed erano scalate le cime più alte come il Pelmo, la Marmolada, il Civetta, il Catinaccio, il Sassolungo e le Tre Cime di Lavaredo.
A guidare gli alpinisti venuti da fuori erano i montanari e i cacciatori di camosci locali. Niente sarebbe stato più come prima nelle Dolomiti. Col tempo sono state tracciate molte strade automobilistiche, scavate gallerie, edificati rifugi sulle montagne e tanti alberghi nelle valli e sui passi. Arrivano folle di turisti e scalatori da tutto il mondo.
Dal 26 giugno 2009, con voto unanime da parte dei 21 componenti del World Heritage Committee riuniti a Siviglia, le Dolomiti, dopo le isole Eolie, sono il secondo sito naturale italiano riconosciuto come Patrimonio Universale dell’Umanità e inserite tra i siti di eccezionale importanza, da proteggere con i fondi dell’Unesco.
Si tratta di nove gruppi dolomitici per complessivi 142.000 ettari, cui si aggiungono altri 85.000 ettari di ‘aree cuscinetto’, per un totale di 231.000 ettari, suddivisi tra le province di Trento e Bolzano in Trentino Alto Adige, Belluno in Veneto, Pordenone ed Udine in Friuli.
 

 
Fanno parte di tale Patrimonio: il gruppo formato da Pelmo e Croda da Lago, situati in Veneto, tra Cadore, Zoldano e Ampezzano; il massiccio della Marmolada, posto fra Trentino e Veneto e comprendente la cima più alta delle Dolomiti (3.343 metri) e il ghiacciaio più importante; il gruppo formato dalle Pale di San Martino, facente parte del Parco Naturale Paneveggio-Pale di San Martino, Pale di San Lucano e Dolomiti bellunesi, per lo più in territorio veneto ma anche in Trentino; il gruppo formato dalle Dolomiti friulane e d’Oltre Piave, le più orientali, suddivise fra le province di Pordenone e Udine; le Dolomiti settentrionali, situate fra Alto Adige e Veneto e comprendenti i frastagliati Cadini, le candide Dolomiti di Sesto, le austere Dolomiti d’Ampezzo, le lunari Dolomiti di Fanes, Senes e Braies; il gruppo Puez-Odle, tutto in territorio altoatesino, oggi splendido parco naturale; il gruppo formato dallo Sciliar, dal Catinaccio e dal Latemar, a cavallo fra Alto Adige e Trentino; le Dolomiti di Brenta, inglobate nel Parco Naturale Adamello Brenta, le più occidentali, dove è stato reintrodotto da alcuni anni l’orso bruno, tutte in territorio trentino; il Rio delle Foglie, uno straordinario canyon, unico al mondo, le cui stratificazioni rocciose dei più diversi colori e gli innumerevoli fossili di animali preistorici permettono di ‘leggere’ come in un libro aperto la storia geologica della Terra.
Come s’è visto, alcuni gruppi dolomitici sono parte integrante dei parchi naturali, dove per parco si intende uno scenario di biodiversità naturali e sociali, con cui fare interagire un laboratorio di iniziative e attività economiche, ecosostenibili ed ecocompatibili, in grado di non alterare, o peggio non distruggere l’equilibrio esistente. Per le comunità dolomitiche, poiché è l’uomo a “fare” le Dolomiti, intese come ambiente e paesaggio, è aumentata la responsabilità nella conservazione di questi delicati ecosistemi naturali, senza far pesare la presenza antropica, per tramandarne il contesto geologico e l’alto valore culturale, riconosciuto oggi come universale.
Per gestire questo patrimonio, si va verso la creazione di una fondazione, che opererà in base a dei piani di gestione di settore, articolato secondo i vari territori provinciali.
Sempre l’Unesco, nel giugno 2008, ha inserito il Parco Naturale Adamello Brenta, costituito nel 1967 col fine specifico di conservare l’orso bruno e che ingloba il territorio di 39 Comuni, nella Rete europea e mondiale dei geoparchi, che conta 43 aree, che, sotto l’egida dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, l’Unesco appunto, lavorano insieme per conservare e valorizzare il proprio patrimonio geologico.
 
            La montagna deve necessariamente far cultura
 
Frequentare le montagne a piedi o con le ciaspole è diverso che scendere a scavezzacollo per le piste da discesa, badando solo a non scontrarsi con altri sciatori o a non finire fuori pista.
La montagna è bella e faticosa, ha un cuore pulsante e ci svela scenari impensati, oltre che elevarci materialmente e spiritualmente.
 

 
L’elaborazione di questo testo mi offre l’opportunità di mettere in rete alcune mie foto di escursioni fatte con l’amico Ipo Oliveri, esperto di montagne e sentieri, e tre miei dipinti elettronici relativi a due leggende alpine.
Il grande scrittore Carlo Emilio Gadda (Milano, 1893 Roma, 1973), a cui fu chiesto, in punto di morte, cosa lo avesse impressionato di più in vita, rispose: “Le Alpi”. Lui, che era ingegnere, interventista e volontario, aveva combattuto nella Grande guerra contro l’Austria sull’Adamello e sulle montagne vicentine, prima d’essere fatto prigioniero e condotto in Germania.
Mario Rigoni Stern (Asiago, 1921 2008), di oltre una generazione successiva rispetto a Gadda, combatté durante la seconda guerra mondiale come alpino nella Divisione Tridentina, prima sul confine francese e poi in Albania, Grecia e Russia, dove sopravvisse alla spaventosa tragedia della ritirata. Caduto prigioniero dei tedeschi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, fu deportato in Prussia Orientale e ritornò a piedi a casa, il 5 maggio 1945, dopo due anni di lager. Grande amante della montagna, del suo Altopiano di Asiago e fautore del recupero della cultura dei Cimbri, è diventato grande narratore di storie incentrate sulla natura e sulla rielaborazione dei ricordi personali.
 

 
Sulle montagne dell’Arco alpino orientale, che è stato teatro di tante battaglie cruente nella prima guerra mondiale, non è difficile imbattersi in manufatti bellici come forti, tunnel, grotte, camminamenti e trincee con i segni dell’abbandono e della distruzione operata dal tempo e dagli agenti atmosferici, e talvolta dai cacciatori di metalli o di reperti. I ghiacciai dell’Adamello e del Cevedale continuano a ritirarsi. Così capita che d’estate restituiscano ancora reperti militari e talvolta la salma di qualche caduto.
Lo sci da discesa, negli ultimi decenni, in ossequio a un turismo di massa e a uno sviluppo, non sempre bio ed ecosostenibile a livello ambientale, ha trasformato valli e montagne assoggettandole al consumismo delle vacanze delocalizzate e delle settimane bianche. Ferite indelebili segnano il territorio a causa di piste, tracciate per centinaia di chilometri, e poi telecabine, seggiovie e skilift per un multiforme carosello di impianti sciistici, dove nei periodi di magra di neve naturale sono i cannoni a sparare quella artificiale. L’attività sciistica produce ricchezza con uno sfruttamento veloce e frenetico del territorio, sempre più affollato di gente che esige tutti i comfort. Lo sci da fondo e lo slittino, per i quali si allestiscono apposite piste, partecipano anch’essi, pure se in misura marginale, alla spartizione di questa torta. Tuttavia, non si può ridurre tutto a profitto!
Non vanno sottovalutati l’inquinamento, prodotto dalle colonne di auto dei turisti sciatori, e i disagi per gli intasamenti di strade ordinarie e autostrade, nei periodi di maggiore afflusso e per il susseguente rientro ai luoghi di provenienza.
 
 
Se tale è la situazione, frutto della concezione ormai dominante e pervasiva di intendere la montagna, altra cosa è andarci per arrampicare, fare scialpinismo o solo per camminare o ciaspolare in modo tradizionale, avendo come meta una malga, un rifugio, una vetta, un passo o per la semplice voglia di aria pulita, di luce, di natura e paesaggi maestosi. E, anche se negli anni è cresciuto il numero di escursionisti per questo tipo di approccio alla montagna, si può dire che esso incarna lo “slow turismo”, il turismo lento: presenze limitate, vivibilità, fruibilità e rispetto dei luoghi frequentati. Chiaramente questo turismo non porta grandi introiti agli operatori del settore.
Nel suo libro, Il mondo dei vinti, Einaudi 1977 e poi riedizione del 1997, Nuto Revelli scrive che i contadini e i montanari abbandonarono le valli del Cuneese e che il turismo di massa sfigura il paesaggio.
 
 
Frequentando l’Alto Adige, ci si rende conto che i prati e i boschi sono curati come una volta. I masi e le abitazioni isolate, non solo non sono abbandonati, ma risultano abitati. Non è un caso se qui le valli e le montagne sono ancora vive e i piccoli borghi paiono abitati dalle fate. Vi è stato un uso intelligente e previdente dei contributi pubblici elargiti. Bisognerebbe premiarli gli Altoatesini!
Per me personalmente, il mare e la montagna sono le due opposte dimensioni, con cui mi piace aver contatto. Nel mare, incommensurabile massa amniotica della vita, mi piace immergermi: quasi un ricordo ancestrale dell’utero materno. La montagna – spesso anch’essa figlia del mare e talvolta dei vulcani – è quella con cui mi piace misurarmi, per sollecitare una migliore conoscenza di me stesso.
Per entrare nella dimensione della montagna, si deve uscire dall’identità del consumista con i sensi obnubilati, che ha smarrito il proprio passato di essere-animale integrato nella natura. Vanno letti i segnali della biomassa, che ancora offre la montagna, della biodiversità, percepiti gli odori, captate le “armonie” lievi e silenziose dei boschi, ascoltate le sinfonie di ruscelli e cascatelle, che scendono nelle valli sottostanti, ed essere abbagliati da imprevisti squarci di luce nei boschi di larici, pecci e pini cembri. Va osservata e amata la flora, la sua varietà di forme e colori secondo le stagioni. Vanno seguiti con occhio attento gli spostamenti cauti dei camosci, l’allerta delle marmotte attorno alle tane, l’ascensione a spirale dell’aquila sulle termiche, lungo le pareti verticali dei monti.
 
 
Il 2010 è stato dichiarato Anno Internazionale della Biodiversità, ma il Countdown 2010, il cui scopo era quello di ridurre in modo consistente la perdita della biodiversità, è fallito. Ed è fallito non solo ai Tropici e nei grandi Hot Spot di biodiversità del pianeta, ma anche in Europa e nelle Alpi dove vivono oltre 30.000 specie animali, di cui 20.000 sono gli invertebrati, 200 le specie di uccelli nidificanti, 80 quelle dei mammiferi, 21 le specie di anfibi e 15 quelle dei rettili. Resistono qui due “relitti glaciali”: l’ermellino e la pernice bianca. Ben oltre 4.500 sono le specie vegetali con molti endemismi, vale a dire specie che si sono adattate e specializzate a vivere in ambienti molto particolari. Purtroppo la riduzione della biodiversità prosegue sia per l’occupazione e il degrado degli spazi vitali, soprattutto nei fondovalle, sia per i cambiamenti climatici. Tutte cause riconducibili a fattori antropici.
Arrivati in vetta, per una delle tante “scale” del cielo, in solitudine, o con qualche amico, lasciarsi rapire da anfiteatri di roccia straordinari e rimanere estasiati, nel contemplare la bellezza e il mistero del Creato. Un mondo di visioni e di immaginazione, per uscire dal tempo ed entrare nello spazio del paesaggio, nella sua memoria biologica e geologica.
La montagna è una straordinaria scuola di roccia e di geologia, che, come un libro aperto, fornisce tracce e indicazioni sulla storia della formazione della Terra.
Osservare il ghiaccio e la neve che si sciolgono, i ruscelli che corrono a valle a dissetare le pianure, non è che un passaggio del ciclo biologico dell’acqua, che alimenta il circuito della vita, e che nel mondo attuale è un bene prezioso che comincia a scarseggiare.
L’occhio attento può individuare anche la presenza di antichi reperti archeologici nell’ambiente, come quando m’è capitato di riscontrare depositi di scorie di fusione dell’età del Bronzo, nei boschi sopra Rizzolaga che affacciano in Val di Cembra.
È straordinario arrampicare, è magnifico salire per le ferrate. È bello semplicemente camminarle le montagne, o andare con le ciaspole sulla neve e sentire al proprio passaggio il crocchiare sordo della coltre bianca che si spezza.
 
 
Idoneo deve essere l’equipaggiamento. Le escursioni vanno preparate per tempo e, prima di avventurarvisi, essenziali sono le informazioni sulle condizioni ambientali e meteorologiche. Mai dimenticare che ogni 1000 m. di altitudine, la temperatura scende normalmente di 6-7 gradi. La montagna va rispettata, le precauzioni non sono mai troppe. In certi momenti cruciali essa non perdona, ma in genere le disgrazie non sono colpa della montagna e, a causa di ciò, il Parlamento si appresterebbe a varare norme severe per la pratica degli sport fuori pista.
Anche le montagne attorno alla città di Trento, Bondone e Paganella, la mattina, s’arrossano come le Dolomiti. Quando mi stabilii qui mi trasmettevano un senso di angoscia. Al Sud ero vissuto sempre in collina, da dove si domina valli e circondari. Col tempo ho imparato che le montagne sono barriere valicabili. Ne ho scoperto le infinite bellezze e anche le leggende.
Le valli dolomitiche sono abitate in buona parte da genti ladine, che parlano il ladino, una lingua neolatina, e sono gelose custodi del loro patrimonio di tradizioni e leggende.
In questa parte delle Alpi si possono ammirare luoghi fantastici, come quello di re Laurino sul Catinaccio, nelle Dolomiti, e quello degli Ometti di pietra sopra Sarentino, paese di una valle confinante con l’area dolomitica.
 
            Re Laurino e il popolo di nani
 
Se sino ad alcuni anni fa, le leggende albergavano nell’immaginario popolare e talvolta finivano in qualche libro, ora c’è internet, che, anche se può sembrare un surrogato, cerca di riannodare quel filo che si è spezzato tra le generazioni di nonni e nipoti, grazie a cui favole e leggende venivano trasmesse da bocca a orecchio. Così sul web, grazie ai volontari di Wikipedia e ad altri ‘inserzionisti’, si ritrovano differenti versioni della leggenda di Re Laurino e del suo popolo di nani.
Mi capitò di leggere in passato che dei conquistatori del Nord, scesi tra le Dolomiti, perché attirati dalle voci secondo cui in questi luoghi si estraevano cristalli, oro e argento dalle rocce, avevano riscontrato che gli abitanti erano di bassa statura, per cui li avevano soprannominati “nani”.
 

 
Sono due le versioni principali della leggenda di Re Laurino.
Secondo la prima versione, sul Catinaccio, nel punto in cui fino a primavera inoltrata è visibile una grande chiazza di neve, raccolta come in una specie di catino, vi era il giardino di rose di Re Laurino. Per questo il Catinaccio è denominato in tedesco Rosengarten, cioè Giardino delle Rose.
Re Laurino, oltre a regnare sul popolo dei nani, che estraevano cristalli, argento ed oro dalle viscere delle montagne, possedeva due armi magiche: una cintura che gli trasmetteva una forza pari a quella di dodici uomini ed una cappa, che, se indossata, lo rendeva invisibile.
Il giorno in cui il Re dell’Alto Adige decise di concedere la mano di Similde, la sua bellissima figlia, invitò per una gita di maggio tutti i nobili delle vicinanze, tranne Re Laurino. Costui decise di partecipare lo stesso e quando notò, sul campo del torneo cavalleresco, la bellissima Similde, se ne innamorò immediatamente e, caricatala in groppa al suo cavallo, fuggì via con lei.
Tutti i nobili partecipanti alla gita si lanciarono al suo inseguimento e si schierarono all’ingresso del Giardino delle Rose per poterlo bloccare. Re Laurino indossò subito la cintura, che gli dava la forza di dodici uomini, e si preparò a combattere. Resosi però conto che non poteva vincere contro la moltitudine di quegli uomini, che lo attaccavano da tutte le parti, e che anzi stava per soccombere, indossò la cappa che lo rendeva invisibile e si mise a saltellare per il giardino. Purtroppo per lui, i cavalieri, osservando il movimento delle rose sotto di cui Laurino cercava di nascondersi, riuscirono ad individuarlo. Lo catturarono, recisero la cintura magica e lo fecero prigioniero.
 

 
Re Laurino, assai contrariato per quanto gli stava succedendo, si rivolse verso il Catinaccio che lo aveva tradito e lo maledisse: “Di giorno e di notte, nessun occhio umano possa più ammirarti!”. Ma, accecato dalla rabbia, si dimenticò di inserire nella maledizione anche l’alba e il tramonto, per cui il Catinaccio, sia all’alba che al tramonto si colora di rosa, come un giardino di incomparabile bellezza. Un fenomeno magico che è denominato “Enrosadira”. Da allora, anche tutti gli altri “Monti Pallidi”, all’alba e al tramonto, si infiammano tingendosi di un magnifico color rosa.
La seconda versione racconta di un Re Laurino, sovrano saggio e buono, che regnava sul solito popolo di nani e aveva una figlia bellissima di nome Ladina, con la quale coltivava uno splendido giardino di rose.
Un dì passa di lì il principe Latemar, sovrano dell’omonima catena di vette, che, vedendo il giardino di rose e domandandosi come esso potesse vegetare in un luogo tanto selvaggio e inospitale, decide di andare a verificare. Scopre che è la principessa Ladina a occuparsene di persona ogni giorno. Se ne innamora e la rapisce.
Quando Re Laurino scopre il misfatto, e si rende conto di aver perso il bene per lui più caro, piangente e sconsolato maledice il giardino di rose, che ha fatto scoprire al principe Latemar la posizione del suo regno e la presenza di Ladina. Ordina che tutte le rose non fioriscano mai più, né di giorno né di notte, ed esala l’ultimo respiro. Ma nella disperazione si è dimenticato dell’aurora e del tramonto. E da allora le vette dolomitiche si ammantano di rose colorate, all’alba e al tramonto.
In questa versione, rispetto alla prima, mancano la bella Similde, la battaglia coi cavalieri e le due armi magiche: la cintura e la cappa.
 
            Ometti di pietra
 
Gli “Steinernen Mandln” sulla Hohe Raisch, montagna sopra Sarentino, da cui si gode una veduta a 360 gradi su Val Sarentino, Dolomiti, Lagorai, Brenta, Adamello, gruppo di Tessa e Merano 2000, sono oggetto di favole e leggende.
Sono la moltitudine di Ometti, piramidi costruite con frammenti sovrapposti di lastre di roccia locale che si sfalda, che stranamente rimangono in piedi nonostante l’imperversare degli agenti atmosferici. Anche se non tutti ne sono certi, si racconta che indichino ai pastori con le greggi e agli escursionisti la direzione da seguire, soprattutto in caso di nevicate abbondanti. Ma si ritiene pure che essi siano i resti di un luogo di culto precristiano, per lo straordinario senso di mistero e spiritualità che esso promana.
 
 
Sono citati negli atti del processo alla strega Pachlerzottl, detta la scarmigliata, celebrato nel 1540. Era l’epoca della caccia e dei processi alle streghe in tutta l’Europa. A lei erano mosse diverse accuse: di far piovere dal cielo massi e grandine; di essere depositaria delle magie del latte; di provocare la morte di animali e bambini. Insomma, una strega crudele secondo i racconti, che confessò di possedere un unguento magico, che le consentiva di volare, e che conservava in uno scrigno assieme alla cenere di un topo bruciato vivo, indispensabile per le fatture d’amore. Ammise pure che custodiva l’ossicino d’un feto nato morto, una ciocca di capelli ed essenze magiche, tutto materiale con cui era in grado di provocare l’azzoppamento di umani e animali.
 
 
Sul colle degli Ometti si incontrava col diavolo, dove convenivano pure altre streghe: insomma, un raduno per un vero e proprio sabba. Condannata, fu bruciata viva il 28 agosto 1540.
Questa leggenda, a parte il posto tanto suggestivo, non si discosta molto da leggende consimili riferite a luoghi di altre latitudini, Meridione compreso. Però al Sud le streghe erano sì temute dalla gente, ma non erano mandate al rogo.
 

 
Per rimanere agli Ometti, qualche associazione altoatesina invita gli escursionisti a costruire il proprio ometto, coi numerosi detriti rocciosi che abbondano sul posto. In questo modo, la leggenda delle streghe sopra Sarentino resisterebbe ancora per molto tempo.
Va detto che anche in altre parti delle Alpi si incontrano spesso sporadici Ometti.
 
 
Nell’elaborare una delle due illustrazioni per questa leggenda, mi sono servito di donne e streghe in costume di Montecalvo Irpino, il mio paese natale, ricco di credenze magiche e leggende arcaiche su janare (streghe), sabba, folletti e lupi mannari.
(Le quattro foto con un solo asterisco sono tratte dal volume, Dolomiti genesi e fascino, di H. Frass, edito da Casa Editrice Athesia, Bolzano 1983. Le quattro foto con due asterischi, scaricate da internet, sono state da me rielaborate. Tutte le altre foto e i tre dipinti elettronici sono miei. Questo testo, scritto per il Corriere-quotidiano dell’Irpinia, è fruibile nel sito www.angelosiciliano.com).
 
Zell, 16 febbraio 2010                                                                                                     Angelo Siciliano
 

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