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Articoli e saggi
Montagne simili ma
con tante differenze: per la storia geologica della Terra,
per alcune leggende,
per il riconoscimento come Patrimonio Universale dell’Umanità…
Ma è fondamentale che
la montagna faccia cultura conoscendola e praticandola
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Dolomiti del Sud
Le Dolomiti Lucane si stagliano
all’improvviso all’orizzonte, percorrendo in auto la Basentana in
direzione nord tra spettacolosi calanchi, dopo essersi lasciati alle
spalle Metaponto e lo Ionio da qualche decina di chilometri.
Nell’estate del 2009 si poteva volare agganciati con un’apposita
imbragatura a un cavo d’acciaio sospeso a 400 metri di altezza, tra
le vette di due paesi del Potentino: Pietrapertosa e Castelmezzano,
arroccati su costoni rocciosi come due antichi presepi di pietra. Si
sorvolavano a volo d’angelo le vette dolomitiche locali, con due
linee opposte, godendo di una veduta straordinaria, consueta solo ai
grandi rapaci. Chi voleva provare emozioni da brivido, bastava che
volasse per più di 1400 m. sfruttando la forza di gravità per circa
un minuto e mezzo, ad una velocità mozzafiato di 110-120 km l’ora,
su macchie di ginestre, catene rocciose e orridi precipizi.
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I picchi di arenaria, aspri e
frastagliati, modellati in modo bizzarro dagli agenti atmosferici,
hanno ricevuto nomi strani dalla fantasia popolare: Civetta, Bocca
del Leone, Aquila Reale, Gufo. La quota massima è quella del Monte
Caperrino, che raggiunge i 1400 metri.
Denominate Piccole Dolomiti Lucane,
per la somiglianza morfologica con le Pule delle Dolomiti trentine e
le Dolomiti venete, si trovano nell’Appennino lucano, a est della
più imponente dorsale
Pierfaone-Volturino-Viggiano,
al centro dell’omonimo Parco naturale regionale.
La loro origine geologica risale a
15 milioni di anni fa.
Certamente belle, ma, a parte
l’unicità del volo d’angelo e i paesaggi mediterranei di cui si può
godere, il paragone con le Dolomiti del Nord è impari sotto diversi
punti di vista: l’altezza, l’estensione, le varietà
geo-morfologiche, paesaggistiche, botaniche e faunistiche, la storia
geologica della Terra, nonché per alcune leggende.
Dolomiti del Nord
Alla fine del Settecento, le
montagne del Tirolo del sud – come si chiamava allora il Trentino
Alto Adige, sotto l’Impero austroungarico – erano note come “Monti
Pallidi”, per via del candore diafano delle loro pareti calcaree.
Fu il geologo francese Deodat de
Dolomieu, nel 1789, a iniziare lo studio sistematico dei carbonati
di calcio e del magnesio, componenti caratteristici di queste
montagne. Poi avrebbe fatto parte della commissione scientifica che
accompagnò Napoleone Bonaparte col suo esercito in Egitto, ma il suo
nome resta legato a una roccia
calcarea, Dolomia principale, e alle catene montuose più
belle del pianeta: le Dolomiti.
In periodi geologici molto antichi,
le zolle continentali si staccavano dalla Pangèa, unica grande
piattaforma emersa nel grande oceano del pianeta Terra, e andavano
alla deriva. Forze naturali demolitrici si alternavano a forze
naturali costruttrici. Dal globo terraqueo fuoriuscivano enormi
quantità di vapori venefici e magma incandescente, che
solidificandosi creava piattaforme e rilievi. Spinte tettoniche
gigantesche accavallavano, piegavano, fratturavano e deformavano gli
strati rocciosi. Sollevavano catene di montagne e interi continenti.
In un contesto di immani
sconvolgimenti geologici, 1500 milioni di anni fa comparivano le
forme primordiali della flora
e della fauna: organismi precellulari e unicellulari del mondo
vegetale e animale, che andavano adattandosi all’ambiente più
idoneo, il cosiddetto brodo primordiale. In seguito diventavano
pluricellulari. Grazie alla selezione naturale e al susseguirsi di
infinite generazioni di esseri viventi, nell’alternanza di
estinzioni e mutamenti, in milioni di anni essi colonizzavano i
mari, i laghi, i fiumi e la terraferma. Nascevano gli ecosistemi, in
cui coesistono in equilibrio varie forme di vita sulla terra, che
sono giunti fino a noi. L’uomo attuale, diretto discendente
dell’homo sapiens, non dovrebbe continuare ad alterarli o peggio a
distruggerli.
La complessa origine geologica
delle Dolomiti si fa risalire a 250 milioni di anni fa, quando si
formarono in mare le loro fondamenta di rocce sedimentarie ed
eruttive.
Nel periodo del Trias, 150 milioni
di anni fa, l’Europa meridionale era ancora sommersa dalle acque
della Tètide, l’antico Mediterraneo, che, infilandosi attraverso i
continenti ora scomparsi, collegava gli oceani d’Oriente con quelli
d’Occidente. In quel primitivo mare, come negli attuali mari
tropicali, si accumulavano strati di materiali per migliaia di
metri, che inglobavano sabbie alluvionali, ghiaie, argille, gessi e
calcari. Sulle superfici e sui fianchi di quegli strati, colonie di
coralli costruivano banchi e scogliere. Poi succedeva che periodi di
eruzioni esplosive sottomarine distruggessero tali ambienti e gli
esseri viventi. Sui fondali si ammassavano scheletri madreporici,
gusci calcarei e silicei di miriadi di organismi marini grandi e
piccoli, che vivevano nelle acque tiepide. Quegli accumuli, in
milioni di anni, produssero alti strati di bianchi calcari, rocce
silicee di vari colori e marne grigie. Nei periodi di calma la vita
ritornava lentamente e si prendeva la rivincita.
Parte delle terre emerse erano
frequentate dai dinosauri, che dominarono l’ecosistema per oltre 160
milioni di anni, dalla loro comparsa 230 milioni di anni fa, tra la
fine del
Triassico
medio e l’inizio del Triassico superiore, alla loro estinzione,
circa 65 milioni di anni fa alla fine del
Cretaceo.
Il primo scheletro di dinosauro
italiano fu ritrovato al Sud, nel 1981, da un appassionato di
fossili, Giovanni Todesco. Studiato dalla Soprintendenza delle
Antichità di Salerno e custodito dal 2002 a Benevento, nel Museo
Archeologico presso la Rocca dei Rettori, è un reperto del
Cretaceo
inferiore, denominato “Scipionyx samniticus”, “artiglio di Scipione
del Sannio”, in onore di Scipione Breislak che nel 1798 studiò e
segnalò il giacimento di Pietraroja, ricco di fossili, nella zona
del Matese a nord-est di Benevento. È un fossile di piccolo di
dinosauro, conosciuto col nome di Ciro, per le sue capacità di
potente predatore e corridore, che, oltre allo scheletro, ha
conservato pure gli organi interni.
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A partire dal 1996 è stata la volta
del ritrovamento degli Adrosauri in località Villaggio del
Pescatore, presso Trieste, divulgati nel
2009
col nome di “Tethyshadros
insularis”, con un esemplare molto ben conservato, il
dinosauro Antonio di sesso femminile, il più grande e completo
rettile preistorico mai ritrovato in Italia.
Nel 2000 fu scoperto, nei pressi di
Varese, un grande
Teropode
tetanuro,
un dinosauro denominato “Saltriosaurus”
risalente all’inizio del Giurassico.
Oltre ai resti fossili di
dinosauri, in diversi luoghi del nostro Paese sono state scoperte
vere e proprie piste di orme di differenti dinosauri: nel Gargano
(FG), ad Altamura (BA) e a Sezze Scalo, nel comune di
Sezze
(LT).
Anche i territori delle Dolomiti
preistoriche furono frequentati dai dinosauri e ancora prima dai
loro antenati. In alta Vallarsa (TN), una ricerca condotta
dal Museo Tridentino di Scienze Naturali, nell’ambito del
Progetto di ricerca provinciale OPENLOC, ha scoperto circa 150 orme
fossili ai piedi delle Piccole Dolomiti, precisamente sul fianco
meridionale della Val Gerlano, a monte degli abitati di Speccheri e
Ometto.
Sono
le prime orme di rettili, precedenti la comparsa dei dinosauri,
trovate in provincia di Trento e messe in luce dall’erosione di
alcuni torrenti su lastre di roccia.
Riguardano
antenati di lucertole, coccodrilli e dinosauri, che risalgono a
circa 242 milioni di anni fa. Si ritiene che altre orme, nascoste
dalla vegetazione, siano nella continuazione laterale delle
stratificazioni rocciose.
Ai Lavini di Marco, presso Rovereto
(TN), su un obliquo strato calcareo, liberato da un antico e
gigantesco franamento che deviò il corso del fiume Adige, noto come
“Ruine dantesche” nel XII canto dell’Inferno, furono scoperte nel
1990 un centinaio di orme di dinosauri differenti per alimentazione,
carnivori ed erbivori, risalenti a 200 milioni di anni fa.
Sotto le Tre Cime di Lavaredo, nel
territorio del comune di Auronzo (BL), furono scoperte due orme di
Carnosauri risalenti a 215 milioni di anni fa.
Su un masso della frana Pelmetto
del Monte Pelmo, alla Forcella Staulanza nel territorio del comune
di Zoldo Alto (BL), sono impresse alcune decine di orme di
Colcurosauri di oltre 200 milioni di anni fa.
Nel Parco delle Dolomiti Friulane
sono stati individuati nove massi di Dolomia principale con impronte
fossili di dinosauri, appartenenti ad un’epoca compresa tra i 225 e
i 217 milioni di anni, nei comuni di Claut, Cimolais e Andreis (PD).
Circa 60 milioni di anni fa, nel
Terziario, la terra assumeva più o meno la configurazione attuale. I
terremoti, vere convulsioni apocalittiche, e le spinte orogenetiche
corrugavano la crosta terrestre creando le Alpi, gli Appennini, i
Pirenei, i Carpazi, il Caucaso, l’Imalaia e le Ande.
Nel periodo successivo, il
Quaternario, le glaciazioni e i fenomeni erosivi modellavano colline
e montagne, aprivano valli, incidevano solchi profondi sulla
superficie terrestre, creavano pianure con le enormi masse
detritiche trascinate a valle da acqua e ghiacciai.
Gli splendidi paesaggi dolomitici
attuali non sono che la risultanza di fenomeni geologici,
metamorfosi continue ed erosioni di massicci, vette e guglie, che
talvolta mettono a nudo atolli e scogliere coralline fossili.
Le genti degli ambienti dolomitici
vissero per secoli di agricoltura, allevamento del bestiame e di
caccia, nella pace delle proprie valli, dedicandosi più tardi
all’intaglio e all’artigianato della scultura artistica in legno,
che sarebbero diventati poi una risorsa economica importante.
A partire dal 1870, grazie agli
alpinisti inglesi, e poi a quelli tedeschi e italiani, si diffondeva
la pratica dell’alpinismo ed erano scalate le cime più alte come il
Pelmo, la Marmolada, il Civetta, il Catinaccio, il Sassolungo e le
Tre Cime di Lavaredo.
A guidare gli alpinisti venuti da
fuori erano i montanari e i cacciatori di camosci locali. Niente
sarebbe stato più come prima nelle Dolomiti. Col tempo sono state
tracciate molte strade automobilistiche, scavate gallerie, edificati
rifugi sulle montagne e tanti alberghi nelle valli e sui passi.
Arrivano folle di turisti e scalatori da tutto il mondo.
Dal 26 giugno 2009, con voto
unanime da parte dei 21 componenti del “World
Heritage Committee” riuniti a Siviglia, le
Dolomiti, dopo le isole
Eolie, sono il secondo sito naturale italiano
riconosciuto come Patrimonio Universale dell’Umanità e inserite tra
i siti di eccezionale importanza, da proteggere con i fondi
dell’Unesco.
Si tratta di nove gruppi dolomitici
per complessivi 142.000 ettari, cui si aggiungono altri 85.000
ettari di ‘aree cuscinetto’, per un totale di 231.000 ettari,
suddivisi tra le province di Trento e Bolzano in Trentino Alto
Adige, Belluno in Veneto, Pordenone ed Udine in Friuli.
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Fanno parte di tale Patrimonio: il
gruppo formato da Pelmo e Croda da Lago, situati in Veneto, tra
Cadore, Zoldano e Ampezzano; il massiccio della Marmolada, posto fra
Trentino e Veneto e comprendente la cima più alta delle Dolomiti
(3.343 metri) e il ghiacciaio più importante; il gruppo formato
dalle Pale di San Martino, facente parte del
Parco Naturale Paneveggio-Pale di San
Martino, Pale di San Lucano e Dolomiti bellunesi, per lo
più in territorio veneto ma anche in Trentino; il gruppo formato
dalle Dolomiti friulane e d’Oltre Piave, le più orientali, suddivise
fra le province di Pordenone e Udine; le Dolomiti settentrionali,
situate fra Alto Adige e Veneto e comprendenti i frastagliati Cadini,
le candide Dolomiti di Sesto, le austere Dolomiti d’Ampezzo, le
lunari Dolomiti di Fanes, Senes e Braies; il gruppo Puez-Odle, tutto
in territorio altoatesino, oggi splendido parco naturale; il gruppo
formato dallo Sciliar, dal Catinaccio e dal Latemar, a cavallo fra
Alto Adige e Trentino; le Dolomiti di Brenta, inglobate nel
Parco Naturale Adamello Brenta, le
più occidentali, dove è stato reintrodotto da alcuni anni l’orso
bruno, tutte in territorio trentino; il Rio delle Foglie, uno
straordinario canyon, unico al mondo, le cui stratificazioni
rocciose dei più diversi colori e gli innumerevoli fossili di
animali preistorici permettono di ‘leggere’ come in un libro aperto
la storia geologica della Terra.
Come s’è visto, alcuni gruppi
dolomitici sono parte integrante dei parchi naturali, dove per parco
si intende uno scenario di biodiversità naturali e sociali, con cui
fare interagire un laboratorio di iniziative e attività economiche,
ecosostenibili ed ecocompatibili, in grado di non alterare, o peggio
non distruggere l’equilibrio esistente. Per le comunità dolomitiche,
poiché è l’uomo a “fare” le Dolomiti, intese come ambiente e
paesaggio, è aumentata la responsabilità nella conservazione di
questi delicati ecosistemi naturali, senza far pesare la presenza
antropica, per tramandarne il contesto geologico e l’alto valore
culturale, riconosciuto oggi come universale.
Per gestire questo patrimonio, si
va verso la creazione di una fondazione, che opererà in base a dei
piani di gestione di settore, articolato secondo i vari territori
provinciali.
Sempre l’Unesco,
nel giugno 2008, ha
inserito il Parco Naturale Adamello Brenta,
costituito nel 1967 col fine specifico di conservare l’orso bruno
e che ingloba il territorio di 39 Comuni,
nella
Rete europea
e
mondiale
dei geoparchi, che conta 43 aree,
che, sotto
l’egida dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la
scienza e la cultura, l’Unesco appunto,
lavorano insieme per conservare e
valorizzare il proprio patrimonio geologico.
La montagna deve necessariamente far
cultura
Frequentare le montagne a piedi o
con le ciaspole è diverso che scendere a scavezzacollo per le piste
da discesa, badando solo a non scontrarsi con altri sciatori o a non
finire fuori pista.
La montagna è bella e faticosa, ha
un cuore pulsante e ci svela scenari impensati, oltre che elevarci
materialmente e spiritualmente.
L’elaborazione di questo testo mi
offre l’opportunità di mettere in rete alcune mie foto di escursioni
fatte con l’amico Ipo Oliveri, esperto di montagne e sentieri, e tre
miei dipinti elettronici relativi a due leggende alpine.
Il grande scrittore Carlo Emilio
Gadda (Milano,
1893 –
Roma,
1973), a cui fu chiesto,
in punto di morte, cosa lo avesse impressionato di più in vita,
rispose: “Le Alpi”. Lui, che era ingegnere, interventista e
volontario, aveva combattuto nella Grande guerra contro l’Austria
sull’Adamello
e sulle montagne
vicentine, prima d’essere
fatto prigioniero e condotto in
Germania.
Mario
Rigoni Stern (Asiago,
1921 –
2008), di oltre una
generazione successiva rispetto a Gadda, combatté durante la seconda
guerra mondiale come
alpino nella
Divisione
Tridentina,
prima sul confine francese e poi in
Albania,
Grecia e
Russia, dove sopravvisse
alla spaventosa tragedia della
ritirata. Caduto
prigioniero dei tedeschi, dopo l’armistizio dell’8
settembre
1943, fu deportato in
Prussia Orientale e
ritornò a piedi a casa, il
5 maggio
1945, dopo due anni di
lager. Grande amante della
montagna, del suo
Altopiano di Asiago e
fautore del recupero della cultura dei
Cimbri,
è diventato grande narratore di storie
incentrate sulla natura e sulla rielaborazione dei ricordi
personali.
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Sulle montagne dell’Arco alpino
orientale, che è stato teatro di tante battaglie cruente nella prima
guerra mondiale, non è difficile imbattersi in manufatti bellici
come forti, tunnel, grotte, camminamenti e trincee con i segni
dell’abbandono e della distruzione operata dal tempo e dagli agenti
atmosferici, e talvolta dai cacciatori di metalli o di reperti. I
ghiacciai dell’Adamello e del Cevedale continuano a ritirarsi. Così
capita che d’estate restituiscano ancora reperti militari e talvolta
la salma di qualche caduto.
Lo sci da discesa, negli ultimi
decenni, in ossequio a un turismo di massa e a uno sviluppo, non
sempre bio ed ecosostenibile a livello ambientale, ha trasformato
valli e montagne assoggettandole al consumismo delle vacanze
delocalizzate e delle settimane bianche. Ferite indelebili segnano
il territorio a causa di piste, tracciate per centinaia di
chilometri, e poi telecabine, seggiovie e skilift per un multiforme
carosello di impianti sciistici, dove nei periodi di magra di neve
naturale sono i cannoni a sparare quella artificiale. L’attività
sciistica produce ricchezza con uno sfruttamento veloce e frenetico
del territorio, sempre più affollato di gente che esige tutti i
comfort. Lo sci da fondo e lo slittino, per i quali si allestiscono
apposite piste, partecipano anch’essi, pure se in misura marginale,
alla spartizione di questa torta. Tuttavia, non si può ridurre tutto
a profitto!
Non vanno sottovalutati
l’inquinamento, prodotto dalle colonne di auto dei turisti sciatori,
e i disagi per gli intasamenti di strade ordinarie e autostrade, nei
periodi di maggiore afflusso e per il susseguente rientro ai luoghi
di provenienza.
Se tale è la situazione, frutto
della concezione ormai dominante e pervasiva di intendere la
montagna, altra cosa è andarci per arrampicare, fare scialpinismo o
solo per camminare o ciaspolare in modo tradizionale, avendo come
meta una malga, un rifugio, una vetta, un passo o per la semplice
voglia di aria pulita, di luce, di natura e paesaggi maestosi. E,
anche se negli anni è cresciuto il numero di escursionisti per
questo tipo di approccio alla montagna, si può dire che esso incarna
lo “slow turismo”, il turismo lento: presenze limitate, vivibilità,
fruibilità e rispetto dei luoghi frequentati. Chiaramente questo
turismo non porta grandi introiti agli operatori del settore.
Nel suo libro, Il mondo dei vinti,
Einaudi 1977 e poi riedizione del 1997, Nuto Revelli scrive che i
contadini e i montanari abbandonarono le valli del Cuneese e che il
turismo di massa sfigura il paesaggio.
Frequentando l’Alto Adige, ci si
rende conto che i prati e i boschi sono curati come una volta. I
masi e le abitazioni isolate, non solo non sono abbandonati, ma
risultano abitati. Non è un caso se qui le valli e le montagne sono
ancora vive e i piccoli borghi paiono abitati dalle fate. Vi è stato
un uso intelligente e previdente dei contributi pubblici elargiti.
Bisognerebbe premiarli gli Altoatesini!
Per me personalmente, il mare e la
montagna sono le due opposte dimensioni, con cui mi piace aver
contatto. Nel mare, incommensurabile massa amniotica della vita, mi
piace immergermi: quasi un ricordo ancestrale dell’utero materno. La
montagna – spesso anch’essa figlia del mare e talvolta dei vulcani –
è quella con cui mi piace misurarmi, per sollecitare una migliore
conoscenza di me stesso.
Per entrare nella dimensione della
montagna, si deve uscire dall’identità del consumista con i sensi
obnubilati, che ha smarrito il proprio passato di essere-animale
integrato nella natura. Vanno letti i segnali della biomassa, che
ancora offre la montagna, della biodiversità, percepiti gli odori,
captate le “armonie” lievi e silenziose dei boschi, ascoltate le
sinfonie di ruscelli e cascatelle, che scendono nelle valli
sottostanti, ed essere abbagliati da imprevisti squarci di luce nei
boschi di larici, pecci e pini cembri. Va osservata e amata la
flora, la sua varietà di forme e colori secondo le stagioni. Vanno
seguiti con occhio attento gli spostamenti cauti dei camosci,
l’allerta delle marmotte attorno alle tane, l’ascensione a spirale
dell’aquila sulle termiche, lungo le pareti verticali dei monti.
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Il 2010 è stato dichiarato Anno
Internazionale della Biodiversità, ma il Countdown 2010, il cui
scopo era quello di ridurre in modo consistente la perdita della
biodiversità, è fallito. Ed è fallito non solo ai Tropici e nei
grandi Hot Spot di biodiversità del pianeta, ma anche in Europa e
nelle Alpi dove vivono oltre 30.000 specie animali, di cui 20.000
sono gli invertebrati, 200 le specie di uccelli nidificanti, 80
quelle dei mammiferi, 21 le specie di anfibi e 15 quelle dei
rettili. Resistono qui due “relitti glaciali”: l’ermellino e la
pernice bianca. Ben oltre 4.500 sono le specie vegetali con molti
endemismi, vale a dire specie che si sono adattate e specializzate a
vivere in ambienti molto particolari. Purtroppo la riduzione della
biodiversità prosegue sia per l’occupazione e il degrado degli spazi
vitali, soprattutto nei fondovalle, sia per i cambiamenti climatici.
Tutte cause riconducibili a fattori antropici.
Arrivati in vetta, per una delle
tante “scale” del cielo, in solitudine, o con qualche amico,
lasciarsi rapire da anfiteatri di roccia straordinari e rimanere
estasiati, nel contemplare la bellezza e il mistero del Creato. Un
mondo di visioni e di immaginazione, per uscire dal tempo ed entrare
nello spazio del paesaggio, nella sua memoria biologica e geologica.
La montagna è una straordinaria
scuola di roccia e di geologia, che, come un libro aperto, fornisce
tracce e indicazioni sulla storia della formazione della Terra.
Osservare il ghiaccio e la neve che
si sciolgono, i ruscelli che corrono a valle a dissetare le pianure,
non è che un passaggio del ciclo biologico dell’acqua, che alimenta
il circuito della vita, e che nel mondo attuale è un bene prezioso
che comincia a scarseggiare.
L’occhio attento può individuare
anche la presenza di antichi reperti archeologici nell’ambiente,
come quando m’è capitato di riscontrare depositi di scorie di
fusione dell’età del Bronzo, nei boschi sopra Rizzolaga che
affacciano in Val di Cembra.
È straordinario arrampicare, è
magnifico salire per le ferrate. È bello semplicemente camminarle le
montagne, o andare con le ciaspole sulla neve e sentire al proprio
passaggio il crocchiare sordo
della coltre bianca che si spezza.
Idoneo deve essere
l’equipaggiamento. Le escursioni vanno preparate per tempo e, prima
di avventurarvisi, essenziali sono le informazioni sulle condizioni
ambientali e meteorologiche. Mai dimenticare che ogni 1000 m. di
altitudine, la temperatura scende normalmente di 6-7 gradi. La
montagna va rispettata, le precauzioni non sono mai troppe. In certi
momenti cruciali essa non perdona, ma in genere le disgrazie non
sono colpa della montagna e, a causa di ciò, il Parlamento si
appresterebbe a varare norme severe per la pratica degli sport fuori
pista.
Anche le montagne attorno alla
città di Trento, Bondone e Paganella, la mattina, s’arrossano come
le Dolomiti. Quando mi stabilii qui mi trasmettevano un senso di
angoscia. Al Sud ero vissuto sempre in collina, da dove si domina
valli e circondari. Col tempo ho imparato che le montagne sono
barriere valicabili. Ne ho scoperto le infinite bellezze e anche le
leggende.
Le valli dolomitiche sono abitate
in buona parte da genti ladine, che parlano il ladino, una lingua
neolatina, e sono gelose custodi del loro patrimonio di tradizioni e
leggende.
In questa parte delle Alpi si
possono ammirare luoghi fantastici, come quello di re Laurino sul
Catinaccio, nelle Dolomiti, e quello degli Ometti di pietra sopra
Sarentino, paese di una valle confinante con l’area dolomitica.
Re Laurino e il popolo di nani
Se sino ad alcuni anni fa, le
leggende albergavano nell’immaginario popolare e talvolta finivano
in qualche libro, ora c’è internet, che, anche se può sembrare un
surrogato, cerca di riannodare quel filo che si è spezzato tra le
generazioni di nonni e nipoti, grazie a cui favole e leggende
venivano trasmesse da bocca a orecchio. Così sul web, grazie ai
volontari di Wikipedia e ad altri ‘inserzionisti’, si ritrovano
differenti versioni della leggenda di Re Laurino e del suo popolo di
nani.
Mi capitò di leggere in passato che
dei conquistatori del Nord, scesi tra le Dolomiti, perché attirati
dalle voci secondo cui in questi luoghi si estraevano cristalli, oro
e argento dalle rocce, avevano riscontrato che gli abitanti erano di
bassa statura, per cui li avevano soprannominati “nani”.
Sono due le versioni principali
della leggenda di Re Laurino.
Secondo la prima versione, sul
Catinaccio, nel punto in cui fino a primavera inoltrata è visibile
una grande chiazza di neve, raccolta come in una specie di catino,
vi era il giardino di rose di Re Laurino. Per questo il Catinaccio è
denominato in tedesco Rosengarten, cioè Giardino delle Rose.
Re Laurino, oltre a regnare sul
popolo dei nani, che estraevano cristalli, argento ed oro dalle
viscere delle montagne, possedeva due armi magiche: una cintura che
gli trasmetteva una forza pari a quella di dodici uomini ed una
cappa, che, se indossata, lo rendeva invisibile.
Il giorno in cui il Re dell’Alto
Adige decise di concedere la mano di Similde, la sua bellissima
figlia, invitò per una gita di maggio tutti i nobili delle
vicinanze, tranne Re Laurino. Costui decise di partecipare lo stesso
e quando notò, sul campo del torneo cavalleresco, la bellissima
Similde, se ne innamorò immediatamente e, caricatala in groppa al
suo cavallo, fuggì via con lei.
Tutti i nobili partecipanti alla
gita si lanciarono al suo inseguimento e si schierarono all’ingresso
del Giardino delle Rose per poterlo bloccare. Re Laurino indossò
subito la cintura, che gli dava la forza di dodici uomini, e si
preparò a combattere. Resosi però conto che non poteva vincere
contro la moltitudine di quegli uomini, che lo attaccavano da tutte
le parti, e che anzi stava per soccombere, indossò la cappa che lo
rendeva invisibile e si mise a saltellare per il giardino. Purtroppo
per lui, i cavalieri, osservando il movimento delle rose sotto di
cui Laurino cercava di nascondersi, riuscirono ad individuarlo. Lo
catturarono, recisero la cintura magica e lo fecero prigioniero.
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Re Laurino, assai contrariato per
quanto gli stava succedendo, si rivolse verso il Catinaccio che lo
aveva tradito e lo maledisse: “Di giorno e di notte, nessun occhio
umano possa più ammirarti!”. Ma, accecato dalla rabbia, si dimenticò
di inserire nella maledizione anche l’alba e il tramonto, per cui il
Catinaccio, sia all’alba che al tramonto si colora di rosa, come un
giardino di incomparabile bellezza. Un fenomeno magico che è
denominato “Enrosadira”. Da allora, anche tutti gli altri “Monti
Pallidi”, all’alba e al tramonto, si infiammano tingendosi di un
magnifico color rosa.
La seconda versione racconta di un
Re Laurino, sovrano saggio e buono, che regnava sul solito popolo di
nani e aveva una figlia bellissima di nome Ladina, con la quale
coltivava uno splendido giardino di rose.
Un dì passa di lì il principe
Latemar, sovrano dell’omonima catena di vette, che, vedendo il
giardino di rose e domandandosi come esso potesse vegetare in un
luogo tanto selvaggio e inospitale, decide di andare a verificare.
Scopre che è la principessa Ladina a occuparsene di persona ogni
giorno. Se ne innamora e la rapisce.
Quando Re Laurino scopre il
misfatto, e si rende conto di aver perso il bene per lui più caro,
piangente e sconsolato maledice il giardino di rose, che ha fatto
scoprire al principe Latemar la posizione del suo regno e la
presenza di Ladina. Ordina che tutte le rose non fioriscano mai più,
né di giorno né di notte, ed esala l’ultimo respiro. Ma nella
disperazione si è dimenticato dell’aurora e del tramonto. E da
allora le vette dolomitiche si ammantano di rose colorate, all’alba
e al tramonto.
In questa versione, rispetto alla
prima, mancano la bella Similde, la battaglia coi cavalieri e le due
armi magiche: la cintura e la cappa.
Ometti di pietra
Gli “Steinernen
Mandln” sulla Hohe Raisch, montagna sopra Sarentino, da
cui si gode una veduta a 360 gradi su Val Sarentino, Dolomiti,
Lagorai, Brenta, Adamello, gruppo di Tessa e Merano 2000, sono
oggetto di favole e leggende.
Sono la moltitudine di Ometti,
piramidi costruite con frammenti sovrapposti di lastre di roccia
locale che si sfalda, che stranamente rimangono in piedi nonostante
l’imperversare degli agenti atmosferici. Anche se non tutti ne sono
certi, si racconta che indichino ai pastori con le greggi e agli
escursionisti la direzione da seguire, soprattutto in caso di
nevicate abbondanti. Ma si ritiene pure che essi siano i resti di un
luogo di culto precristiano, per
lo straordinario senso di mistero e spiritualità che esso promana.
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Sono citati negli atti del processo
alla strega Pachlerzottl, detta la scarmigliata, celebrato nel 1540.
Era l’epoca della caccia e dei processi alle streghe in tutta
l’Europa. A lei erano mosse diverse accuse: di far piovere dal cielo
massi e grandine; di essere depositaria delle magie del latte; di
provocare la morte di animali e bambini. Insomma, una strega crudele
secondo i racconti, che confessò di possedere un unguento magico,
che le consentiva di volare, e che conservava in uno scrigno assieme
alla cenere di un topo bruciato vivo, indispensabile per le fatture
d’amore. Ammise pure che custodiva l’ossicino d’un feto nato morto,
una ciocca di capelli ed essenze magiche, tutto materiale con cui
era in grado di provocare l’azzoppamento di umani e animali.
Sul colle degli Ometti si
incontrava col diavolo, dove convenivano pure altre streghe:
insomma, un raduno per un vero e proprio sabba. Condannata, fu
bruciata viva il 28 agosto 1540.
Questa leggenda, a parte il posto
tanto suggestivo, non si discosta molto da leggende
consimili riferite a luoghi
di altre latitudini, Meridione compreso. Però al Sud le streghe
erano sì temute dalla gente, ma non erano mandate al rogo.
Per rimanere agli Ometti, qualche
associazione altoatesina invita gli escursionisti a costruire il
proprio ometto, coi numerosi detriti rocciosi che abbondano sul
posto. In questo modo, la leggenda delle streghe sopra Sarentino
resisterebbe ancora per molto tempo.
Va detto che anche in altre parti
delle Alpi si incontrano spesso sporadici Ometti.
Nell’elaborare una delle due
illustrazioni per questa leggenda, mi sono servito di donne e
streghe in costume di Montecalvo Irpino, il mio paese natale, ricco
di credenze magiche e leggende arcaiche su janare (streghe), sabba,
folletti e lupi mannari.
(Le quattro foto con un solo asterisco sono tratte dal volume,
Dolomiti genesi e fascino,
di H. Frass, edito da Casa Editrice Athesia, Bolzano 1983. Le
quattro
foto con due asterischi, scaricate da internet, sono state da me
rielaborate. Tutte le altre foto e i tre dipinti elettronici sono
miei. Questo testo, scritto per il Corriere-quotidiano
dell’Irpinia, è fruibile nel sito
www.angelosiciliano.com).
Zell, 16
febbraio 2010
Angelo Siciliano
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