Camillo Sbarbaro (Santa
Margherita Ligure,
1888
– Savona,
1967):
un poeta che imparai a conoscere tardi. D’altronde, i programmi
scolastici degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, quando ero
studente, non sempre lo contemplavano. Tuttavia, già in quegli anni,
iniziavo a leggere la poesia europea e poi l’americana. Senza trascurare
quella italiana: l’ermetismo soprattutto. Il realismo americano mi
svelava il neorealismo nostrano: Pavese su tutti. E l’altro sentiero da
me prediletto, quello delle arti figurative, studiate e praticate, – che
comunque alimenta collegamenti con la letteratura – mi introduceva al
cubismo, al futurismo, al surrealismo, alla metafisica. Mi
affascinarono, in quelle scorribande, gli “automatismi psichici” dei
surrealisti.
Sbarbaro lo “incrociai” il giorno in
cui il primo dei miei due figli ebbe come compito a casa, dal suo
maestro delle elementari, la parafrasi della lirica “Padre, se
anche tu non fossi il mio”, ritenuta,
assieme alla lirica Al padre di
Quasimodo, tra le più felici del nostro Novecento ispirate alla figura
paterna. Quel testo, così essenziale (Padre, se anche tu non
fossi il mio / padre, se anche fossi a me un estraneo / per te stesso
egualmente t’amerei…) ma pure dimesso e
tormentato, e pregno di memoria trasfigurante del sentimento verso il
proprio genitore (io ebbi in sorte di non conoscere mio padre) mi
folgorò. Anche per quel tono distaccato e consolatorio.
Poi, scorrendo le antologie di diversi
curatori in mio possesso, andai alla sua scoperta biografica e di quel
che aveva prodotto in vita. Lo riscontrai poeta e botanico. E, in questa
seconda veste, grande studioso e collezionista di licheni, che andava
scovando, sui sassi e tra i muri della sua terra, armato di scalpello e
martello. Praticava questo hobby al pari di una professione: al punto
che solo come lichenologo vagheggiava di essere ricordato. Perché
rifuggiva da ogni polemica letteraria, anche se tante sue poesie e prose
uscivano su diverse riviste letterarie quali La Riviera Ligure,
Lacerba e La Voce.
Timido e riservato, forse anche per la sua natura di ligure scontroso,
geloso ed orgoglioso delle proprie scoperte, non gradiva i salotti
letterari e, nonostante le collaborazioni a riviste come
Itinerari, Letteratura,
Ausonia, La Fiera
Letteraria, Officina,
Il mondo e a qualche quotidiano,
si sentiva estraneo alle accese dispute culturali, politiche e
letterarie del suo tempo. Unica eccezione, prima dello scoppio della
Grande guerra, a cui avrebbe partecipato da volontario nella Croce Rossa
Italiana e poi come richiamato dal luglio del 1917, fu il suo breve
soggiorno a Firenze, nella primavera del 1914, dove frequentò alcune
gallerie, caffè e riunioni in case d’amici fidati, pubblicò la silloge
Pianissimo
con le Edizioni della “Voce”, ed ebbe modo di conoscere Ardengo Soffici, Giovanni Papini,
Dino Campana, Ottone Rosai, Eugenio Montale, Carlo Bo, Carlo Emilio
Gadda, Angelo Barile, Guglielmo Bianchi e Adriano Grande, che, nel primo
numero della rivista Circoli,
ospitò la sua raccolta Versi a Dina.
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Pubblicò vari Contributi
lichenologici e alcuni anni fa m’è
capitato di sfogliare un bel catalogo, da lui curato, con immagini
splendide di questi vegetali simbiotici: alga con un fungo.
Eugenio Montale (Genova, 1896 – Milano,
1981) fu il primo recensore del testo di prose Trucioli.
Sotto certi aspetti può essere considerato allievo di Sbarbaro, per
l’influsso che ebbe su di lui Pianissimo,
e nel 1925 gli dedicò la raccolta
Ossi di seppia.
Discorrendo su Sbarbaro, in un’intervista televisiva, ricordo che con la
sua proverbiale e arguta ironia, disse che “… mentre parlavi con lui,
era capace di raschiarti sotto una scarpa per cavarne un lichene”.
Delle 127 nuove varietà di licheni,
identificate e descritte da Sbarbaro, una ventina porta il suo nome, e
la sua straordinaria collezione è distribuita tra Musei e Università
europee ed americane. Ma una parte cospicua di essa, la donò al
Museo di Storia
Naturale di
Genova.
Amava il vivere appartato nella sua
Liguria, lingua di terra arcuata e petrosa, riparata dai gelidi venti
del Nord, dove giungono le correnti africane mitigate dal Mediterraneo.
Un clima propizio alla letteratura, e alla poesia in particolare, con
poeti – oltre a Sbarbaro – come
Ceccardo
Roccatagliata Ceccardi,
Mario Novaro,
Giovanni Boine,
Eugenio Montale, Italo Calvino e Giorgio Caproni, ligure d’elezione.
Dalla stessa terra originano la magia
straordinaria, l’ironia sottile, l’inquietudine,
il disincanto, la
ribellione, le
ricercate melodie e le
eleganti orchestrazioni delle
canzoni degli anni Sessanta, i cui testi sono spesso vere e proprie
poesie, che hanno rivoluzionato la musica leggera italiana e che la mia
generazione – e non solo essa – ha molto amato, di autori e musicisti
come Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Gino Paoli e Fabrizio De Andrè,
appartenenti alla cosiddetta “scuola genovese dei cantautori”, di cui
Umberto Bindi, morto in
povertà nel 2002, fu il capostipite, e gli eredi riconosciuti sono Ivano
Fossati e Francesco Baccini.
Sbarbaro è universalmente antologizzato
nel gruppo dei poeti “Vociani”, con Clemente Rebora, Piero Jahier, Dino
Campana, Giovanni Boine e Arturo Onofri. Una stagione felice e
stimolante per la prosa d’arte e il frammento lirico, in cui lui
eccellerà, e che si sviluppò attorno alla rivista La Voce, in un clima
di inquietudini morali, crisi del verso tradizionale e ribellismo
futurista. La
poetica
sbarbariana, dai toni
crepuscolari,
è accostata a quella del
Leopardi,
per quel sentimento di persistente dolore esistenziale, ma con delle
differenze fondamentali: Sbarbaro non rincorre i sogni perduti, le
illusioni tradite, né aspira a ciò a cui è impossibile arrivare.
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A proposito della rivelatrice raccolta
Pianissimo, si è ipotizzato di
influenze baudelairiane, poiché alcune liriche offrono diversi spunti
per comparazioni coi testi del poeta francese. E si è pure rilevato che
se l’opera di Baudelaire pone un discrimine tra poesia del primo
Ottocento e quella successiva, che sintetizza il clima della prima
rivoluzione industriale, in cui l’uomo è prigioniero della solitudine
urbana, quella di Sbarbaro apre una via alla concezione della poesia del
secondo Novecento, per la sofferenza del vivere, per il disagio
interiore e l’impotenza di fronte agli accadimenti della vita, nonché
per la perdita di identità verso il mondo esterno.
Le sue opere sono:
la raccolta di versi giovanili
Resine,
edita da Caimo a Genova nel 1911;
la silloge
Pianissimo,
il cui titolo glielo suggerì il
musicista Giannotto Bastianelli,
in endecasillabi, canto accorato dal tono dimesso, quasi soffocato, con
ampi squarci di tormento interiore, che aborre qualsiasi violenza
linguistica; le prose di
Trucioli, scritte durante la Grande
guerra e pubblicate nel
1920
da Vallecchi a Firenze; Versi a Dina,
con liriche molto belle, in cui il dolore è mitigato dall’amore, che non
riesce a lenire la sofferenza;
Liquidazione,
uscito nel 1928, con le prose degli anni del dopoguerra. Negli anni
successivi seguono i rifacimenti dei testi poetici, già pubblicati in
precedenza, e piccole ma significative raccolte di prosa:
Fuochi fatui
del
1956,
Gocce del
1963,
Il Nostro del
1964,
Contagocce del
1965,
Bolle di sapone e Vedute
di Genova del
1966,
Quisquilie del
1967.
Carlo Bo ha scritto che Sbarbaro “Non
aveva né lezioni da prendere né da dare, la sua scuola era diversa, non
aveva pareti, non aveva maestri all’infuori della sua sensibilità”.
Sbarbaro ebbe a confidare a Gina
Lagorio: «Ho avuto molto dalla vita; più di quanto meritavo». E lei ha
annotato che era “… un uomo capace di conservare sino alla fine,
l’innocenza di un bambino, incantato davanti alle forme e ai colori
della natura; un uomo che rifiutava ogni dogmatismo ed arrivismo, ogni
corruzione con il potere costituito, ogni sollecitazione mondana e men
che meno il successo e la pubblicità; un poeta che non conservava niente
o quasi niente delle recensioni o degli articoli a lui dedicati... ”.
Come lavoro, nel
1927,
Sbarbaro aveva accettato l’incarico per l’insegnamento di greco e
latino presso l’Istituto Arecco di Genova dei padri
Gesuiti,
ma fu costretto a lasciare la cattedra perché non si piegò a tesserarsi
al
Fascio.
E, per guadagnarsi di che vivere, dava ripetizioni di
greco
e
latino.
Fu anche traduttore di classici da
Eschilo,
Sofocle,
Euripide,
Erodoto
e
Pitagora,
e dei moderni
Molière,
Stendhal,
Balzac,
Maupassant,
Flaubert,
Zola
e
Joris-Karl Huysmans.
Visse povero, come un frate laico.
Eppure, era appagato al punto da annotare: “Ogni cosa che scrivo, un ex
voto che appendo; per grazia ricevuta”.
(Questo
testo, scritto per il Corriere – quotidiano
dell’Irpinia e i
Quaderni del Gruppo Poesia 83
di Rovereto (Tn), è fruibile anche nel sito
www.angelosiciliano.com).
Zell, 25 aprile
2010
Angelo Siciliano
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