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di
Paolo Saggese
critico
letterario, fondatore del CDPS*
Montella (Av), 15
gennaio 2011
Resto ammirato di fronte alla
produzione poetica, artistica e antropologica di Angelo
(all’anagrafe Angelomaria) Siciliano, nato a Montecalvo nel 1946, e
che, da una vita ormai, ha abbandonato con il “corpo” l’Irpinia. Nel
1965, infatti, aveva preso la strada per Napoli, in attesa di
laurearsi alla “Federico II” in economia, poi il servizio militare,
e dal 1973 si è trasferito a Trento, dove ha insegnato negli
Istituti superiori e tutt’ora vive con la sua famiglia. Egli
appartiene, dunque, pienamente a quelli che abbiamo definito i
“poeti della diaspora”.
Del resto, lo stesso Siciliano,
nella “Premessa” ad un fascicolo autoprodotto ed edito in quindici
copie nel 2010, scrive: “Pur vivendo a Trento dal 1973, idealmente
non mi sono mai separato dalla mia terra natale, Montecalvo e
l’Irpinia. Solido permane il senso d’appartenenza alla civiltà
mediterranea”.
Detto questo, occorre anche
un’altra precisazione. Il percorso intellettuale e umano di Angelo
Siciliano è così ricco, che non può essere sintetizzato in poche
formule, e così, pur essendo poeta brillante in lingua, oltre che
pittore sperimentale da sempre, ho voluto privilegiare una lettura
“dialettale” per uno straordinario libro di cui parlerò a breve. La
sua esperienza intellettuale ha inizio con Versi biologici
(1977), cui seguono le poesie di
Tra l’albero di Giuda e quello del Perdono
(1987). Sono due raccolte di
componimenti in italiano, che dimostrano un’eleganza e
un’ispirazione non comuni, che richiamano alla memoria la migliore
produzione dei poeti del Sud, da Scotellaro ad Alfonso Gatto, per
arrivare agli autori della nostra Irpinia.
Ed ecco alcuni versi di un canto
straordinario tratto dalla seconda plaquette: “Il Sud non è morto.
Ancora no! / Lo affermiamo, noi della diaspora. / Riponete, i
funebri paramenti, / ricacciate le Arpie, / non vengano ancelle
dolenti, / non preparate vettovaglie:/ il consòlo non è per questi
tempi” (da “Il Sud non è morto”).
La poesia meridionalista di Angelo
Siciliano si fa, inoltre, civile in altri componimenti, in cui si
racconta l’emigrazione degli uomini del Sud, le stragi nere, la
corruzione e l’impotenza della politica, la distruzione della
natura, la guerra imperialistica, la giustizia che è deficitaria, la
crisi delle idee, l’ingiustizia sociale.
Un omaggio bellissimo è ai
contadini del Sud, alle madri contadine, alla propria madre e al
proprio padre, presente in queste raccolte e dunque negli altri
volumi, le antologie poetiche cui ha collaborato (Controparole,
1993; Tempi moderni,
2001; Fermenti, 2004;
Antologia italiana,
2006), le raccolte edite e i fascicoli autoprodotti, con poesie in
italiano e in dialetto montecalvese (Dediche,
raccolta poetica, 1994; Trittico dell’abbondanza,
fascicolo, 2004; Munticàlivu ‘mpónt’a lu siérru,
fascicolo, 2006; Trilogia dell’abbandono,
fascicolo, 2006; Versi famigliari,
fascicolo, 2010), soprattutto un capolavoro nel suo genere, che è Lo
zio d’America. Poesie, cunti,
nenie, ballate e detti in dialetto irpino, di Montecalvo Irpino (Av)
con una raccolta di maledizioni – illustrazioni d’autore”,
Prefazione di Mario Sorrentino, Casa Editrice Menna, Avellino, 1988.
Tra l’altro, questa pubblicata è solo una parte della produzione
culturale quarantennale di Angelo Siciliano, come chiarisce in una
lettera privata inviatami da Zell (Trento) il 12 novembre 2010:
“Avrei pronte 3-4 raccolte in lingua, mentre in vernacolo irpino
sono 10-12 i libri pubblicabili”.
Dunque, un posto rilevante, ma non
esclusivo, è occupato dalla produzione dialettale, che trova la
prima opera matura e probabilmente più organica nel citato
Lo zio d’America.
L’obiettivo di Siciliano era, appunto, di recuperare la memoria, in
modo per così dire filologico, cioè riportando alla luce non solo la
civiltà contadina, ma anche la lingua di questi uomini, che ha
subito un mutamento e un declino irreversibile a partire dagli anni
Sessanta. Accanto ai versi propriamente legati al mondo contadino,
alcuni dei componimenti presenti nel libro sono anche un tentativo
di scrivere “versi moderni dialettali” e, aggiunge lo scrittore,
“anche se essi paiono in stretta relazione con la mia poesia in
lingua, mi auguro possano essere considerati un modo di come il
dialetto irpino può rendere forma e contenuti ispirati alla vita di
oggi” (dalla “Premessa”, 14).
Mario Sorrentino individua
nell’Introduzione tre sezioni differenti, la prima, di “rievocazione
elegiaca”, la seconda, “lirica”, la terza, “civile” – per la quale
opportunamente richiama Scotellaro e Silone –, e analizza
accuratamente la metrica, parlando a proposito “di narrazioni in
prosa ritmica scandite da pause logico-sintattiche (paralleli
illustri sono la prosodia epica germanica – ma quella è
allitterativa – e russa – non allitterativa, quindi maggiormente
somigliante)” (p. 9).
Lo zio d’America racconta,
dunque, in “prosa ritmica” un’epopea popolare dei cittadini di
Montecalvo come di tutti i meridionali, e quindi l’emigrazione a
partire dalla fine dell’Ottocento (condensata nella prima sezione
“L’emigrazione e il contesto complessivo”), gli affetti, la morte,
il mondo religioso e “magico” (“Canti funebri, religione, magia,
miti, detti e malisintenzie”), e quindi argomenti di maggiore
impegno sociale (“Proiezioni possibili: ballate, liriche e poesie
civili”).
Tra le più toccanti della raccolta
si segnalano “Cantu dulurosu”
(“Canto doloroso”), “Com’agghja fa, tatillu miu”
(“Come farò, padre mio”), “Figliu miju, tisoru miju”
(“Figlio mio, tesoro mio”), o ancora colpiscono per efficacia le
poesie dedicate agli emigranti in Svizzera, al padre, al nonno, alla
madre, alle madri del Sud. Ecco alcuni versi: “T’addummànnunu
di quiddru / figliu luntanu, e tu / mancu ti piénzi, / ca pur’iddru
téne nu panaru / chjìnu di frutti / ca so’ bèll’a bidéni, / ma so’
amari” (“Ti domandano di quel /
figlio lontano, e tu / neanche ti immagini, / che pure lui ha un
paniere / pieno di frutti / che sono belli a vedere, / ma sono
amari”, da “Ohji ma’” = “Ohi
ma’”, con temi che fanno pensare ad Antonio La Penna); “Pàtrimu”
(“Padre mio”), che sembra richiamare analoghe poesie di Rocco
Scotellaro, “Na mamma di lu Sud”
(“Una madre del Sud”), che rimanda alla mente un poemetto struggente
di Giuseppe Saggese.
Ecco l’incipit di questa poesia: “T’abbalisci
‘nd’à ‘ssi ttèrre! / Chi ti lu ffà ffà! / T’accìdi l’àlima. Mancu si
tinissi / figlie ancora da mmaritàni!”
(“Patisci in coteste terre! / Chi te lo fa fare! / Tu uccidi la tua
anima. Neanche avessi / figlie ancora da maritare!”).
In questi componimenti, come negli
altri in italiano, vi è il segno di una grande testimonianza per un
Sud che appare “maledetto” e che non vuole morire, che non deve
morire, che deve reagire.
Quest’opera è il frutto di una
dolorosa diaspora, di un “tradimento” – il leitmotiv degli
intellettuali sradicati fuggiti al Nord – nei confronti dei padri,
delle madri, della terra, è il frutto di uno sradicamento che
seppure ha prodotto una vita ricca di soddisfazioni personali e
intellettuali, tuttavia non ha sanato una mancanza nostalgica.
Angelo Siciliano, con il grande “monumento” che ha innalzato, un
tributo d’amore alla sua terra d’Irpinia, dimostra di essere rimasto
qui con il cuore, spesso anche con la mente. Le sue idee, i suoi
sogni, le sue emozioni rivivono qui come a Trento e dimostrano che
siamo sotto lo stesso cielo, uomini in attesa di un mondo migliore
che non rinneghi il passato.
* Paolo
Saggese, critico letterario, sta scrivendo la
Storia della poesia irpina
in più volumi. È fondatore e animatore del CDPS (Centro di
Documentazione sulla poesia del Sud) creato a Nusco nel 2004, la cui
voce è la rivista Poesia
Meridiana
- Spazi e luoghi letterari per i Paesi Mediterranei e per i sud del
mondo.
(Questo testo,
uscito sul quotidiano
Ottopagine
di Avellino il 19 gennaio 2011, è nel sito
www.angelosiciliano.com).
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