Auschwitz nel vissuto e nel racconto di Primo Levi
Ad Auschwitz, nome tedesco della città
polacca Oświecim, in Galizia, ad ovest di Cracovia, le vittime furono
quattro milioni. Un numero spaventoso.
Sede di quattro campi di
concentramento, costruiti nel 1940, dopo la fine della seconda guerra
mondiale il governo polacco vi ha allestito il Museo dei campi di
sterminio.
Nell’introdurre il suo romanzo
autobiografico Se questo è un uomo,
in cui tratta della propria deportazione e di quella d’altri sventurati,
Primo Levi così esordisce: “Per mia fortuna, sono stato deportato ad
Auschwitz solo nel 1944”.
È quanto meno singolare che un ex
deportato, rivisitando il proprio vissuto in quel luogo terribilmente
tragico, quale fu Auschwitz, possa parlare di fortuna. Ma se ne capisce
poi il perché.
Il libro, pubblicato nel 1947 da una
piccola casa editrice, dopo il rifiuto dei grossi editori, passò
inosservato e solo dal 1958, con la riedizione da parte dell’Einaudi,
divenne un caso letterario. Tradotto in sei lingue, ebbe anche riduzioni
radiofoniche e teatrali.
Ebreo torinese, Primo Levi, aspirante
partigiano, fu arrestato in montagna dalla Milizia fascista il 13
dicembre 1943.
Inizialmente fu inviato nel campo
d’internamento di Fossoli, presso Modena. In seguito, assieme ad altri
ebrei uomini, donne e bambini , con uno dei treni della morte,
composto di dodici vagoni merci, in cui erano stati ammassati peggio
delle bestie e sprangati dall’esterno, fu avviato al Lager (campo di
sterminio). In tutto erano seicentocinquanta “pezzi”, come li definivano
i soldati tedeschi.
Si trattava di un viaggio verso il
nulla, tra “i disagi, le percosse (dispensate gratuitamente e senza
collera dagli aguzzini), il freddo, la sete”.
Gli adulti avevano coscienza che per
loro era stata decretata la condanna a morte. Ne avevano parlato a
Fossoli con i profughi polacchi e croati, ma quando si seppe che la
destinazione era Auschwitz, la cosa non solo non fece impressione, ma fu
accettata con un certo sollievo, perché quel luogo era ancora del tutto
sconosciuto.
Scattava, con quel viaggio, l’ambiguo
meccanismo che s’instaura tra vittima e carnefice, in cui, nonostante i
tormenti e le sofferenze, la vittima apparentemente non prova più dolore
nel corpo e nell’anima, e mostra dignità nel sopportare l’abiezione
dell’uomo di fronte allo sterminio di massa.
Giunti ad Auschwitz, la “fortuna” di
Primo Levi fu che il governo tedesco, avendo urgenza di manodopera,
poiché non solo i suoi uomini ma anche i ragazzi, dal 1944, erano
impegnati nella guerra, migliorò in qualche modo le condizioni di vita
dei prigionieri e sospese “temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei
singoli”.
In sostanza gli internati, finché si
reggevano in piedi, sarebbero stati sfruttati, fuori dei campi, in duri
lavori come schiavi.
A Levi fu consentito di fare il chimico
e questo indubbiamente gli salvò la vita, ma lo rese uno dei pochi
sopravvissuti di Auschwitz. Un peso il senso di colpa per essere uno
scampato, mentre gli altri erano morti insopportabile per il resto
della sua vita, sino al 12 aprile 1987, quando non ne poté più e la fece
finita gettandosi nella tromba delle scale del suo palazzo, a Torino.
A buona ragione, si potrebbe annoverare
anche lui tra le vittime dell’Olocausto e non “incolpare” solo il
gravoso fardello della memoria.
Il suo libro tratta di una massa di
persone senza nome: era sufficiente, per l’individuazione di ognuno, il
numero di “matricola” che a ciascuno era stato tatuato sul braccio
sinistro.
Milioni d’internati, quindi, erano
divenuti dei numeri.
Nella mente diabolica del carnefice,
forse, non si annientavano moralmente e fisicamente uomini, donne e
bambini. Semplicemente si cancellavano dei numeri.
Primo Levi descrive gli orrori del
Lager senza odio e senza spirito di vendetta verso i tedeschi.
Egli non giudica e dunque non
emette sentenze. È disposto tuttavia a perdonare solo il nemico che
dimostri di essersi ravveduto non per opportunità o mero calcolo di
convenienza.
|
Fa sì che il lettore possa
addentrarsi nei fatti narrati, conoscerne i particolari, e divenire
lui stesso giudice di quelle vicende.
La sua è una scrittura senza
fronzoli e scevra da retorica.
La realtà delle atrocità viste,
vissute, patite e descritte, si commenta da sola facendosi
portatrice di un messaggio alto, sia civile che morale.
Primo Levi scriverà e pubblicherà
in seguito altri romanzi, nel filone della narrativa d’invenzione, e
gli arriderà il successo tributatogli dai lettori.
Lo sterminio di massa, vocazione del nazionalsocialismo
Il
27 gennaio di ogni anno è “Il giorno della Memoria” e molte
manifestazioni si tengono in Italia e negli altri paesi europei,
affinché le tragedie prodotte dal nazionalsocialismo non siano
dimenticate e non si ripetano in futuro. Finché sono ancora vivi dei
sopravvissuti allo sterminio – ormai molto pochi –, è possibile
ascoltare i loro racconti e toccare quasi con mano le tragedie a cui
sono scampati.
Il testamento dettato da Adolf
Hitler alla segretaria Traudel Junge, subito dopo la lugubre e
tardiva celebrazione del suo matrimonio con Eva Braun, riporta tra
l’altro: “Non è vero che io o chiunque altro in Germania abbia
voluto la guerra del 1939: la guerra è stata provocata dagli
statisti internazionali di razza ebraica o al servizio della razza
ebraica… Non ho mai voluto che, dopo la sanguinosa prima guerra
mondiale, ve ne fosse una seconda contro la Gran Bretagna e gli
Stati Uniti”.
|
Odio e menzogna, fino in fondo,
traspaiono da queste parole dettate da un morituro che, con la sua
sposa, si sarebbe suicidato il 30 aprile 1945.
Meno di duecento litri di benzina
sarebbero serviti ai suoi aiutanti, per cremarli nel giardino
antistante il bunker della cancelleria di Berlino.
Il capo carnefice, buffo ex caporale austriaco,
padrone assoluto del Terzo Reich, oltre ad aver partorito la creatura mostruosa
del nazionalsocialismo, aveva ideato la “soluzione finale” contro gli ebrei.
Meticolosamente disponeva
gli scenari di guerra sulle carte geografiche, al sicuro nel suo bunker.
Ai suoi generali imponeva
le operazioni militari, come se fossero dei burattini a capo di soldatini
di piombo e non di eserciti d’uomini in carne e ossa.
Approssimandosi la
capitolazione della Germania, nella primavera del 1945, il funzionamento
continuo dei forni crematori non era più sufficiente allo smaltimento dei
cadaveri, perché i prigionieri erano fatti morire in massa di fame e di
sete.
“Eliminare i prigionieri
fino all’ultimo uomo!” fu l’ordine diramato ai comandanti di tutti i campi
di sterminio, affinché gli Alleati non ne trovassero traccia.
Hitler, in preda al suo
delirio finale di autodistruzione, farneticava di voler denunciare la
convenzione di Ginevra e poter così umiliare totalmente i prigionieri di
guerra sovietici e angloamericani. Ma Goering, Speer e Himmler lo
sconsigliarono dal fare una cosa del genere, perché non ne sarebbe
derivato alcun vantaggio per la Germania.
L’ordine di eliminare i
prigionieri era eseguito con scrupolo nei Lager, tuttavia non poteva
essere condotto a termine, giacché gli Alleati avevano ormai occupato
tutta la Germania.
Lo spettacolo che si
presentò agli occhi di costoro, quando arrivarono nei campi di sterminio,
era orrendo: sopravvissuti che parevano fantasmi e masse di cadaveri
scheletriti, di persone morte di stenti, tra indicibili sofferenze.
Eppure, a guerra ormai
persa, Hitler non si rassegnava alla disfatta. Si era convinto che la
Germania non fosse più degna di lui e diede ordine, affinché tutti gli
impianti industriali tedeschi fossero distrutti. A sua insaputa, però,
quest’ordine non fu eseguito.
Egli aveva già scelto di
sparire diventando cenere, come le vittime dei suoi Lager.
I soldati sovietici, che
occuparono Berlino, arrivarono per primi al bunker con l’incarico di
cercare i resti del Führer. Pare che un po’ ne trovarono e raccolsero
qualche reperto, a testimonianza della morte avvenuta del loro nemico
capitale.
Tuttavia, i nostalgici
nazisti sperarono per anni nel ritorno vendicativo e di rivalsa del
Führer, nei confronti di nemici e traditori.
La statistica delle
vittime dei Lager ne fa ascendere il numero complessivo a undici milioni:
4.600.000 russi, 3.500.000 polacchi, 600.000 ungheresi, 500.000
cecoslovacchi, 73.000 greci, 520.000 zingari e oltre 1.000.000
appartenenti ad altri popoli.
In questo conteggio
complessivo, gli ebrei di diverse nazionalità spariti con l’Olocausto, la
Shoah, furono sei milioni.
Fu una tragedia dai grandi
numeri.
Gli italiani deportati per
motivi politici furono 23.826 (cfr. Il libro dei deportati, editore
Mursia, pagg. 2.260). Quelli sterminati nei Lager furono solo si fa per
dire 7.858.
In Italia, oltre a Fossoli,
c’erano altri due campi di concentramento: quello di Via Resia a Bolzano e
la Risiera di San Sabba in Friuli.
Adolf Eichmann, che nel
1960 sarebbe stato catturato da agenti israeliani in Argentina, dove si
era rifugiato, processato in Israele e impiccato nel 1962, fu ufficiale
delle SS dal 1938. Incaricato di portare a termine la “soluzione finale
del problema ebraico”, fu responsabile della deportazione di milioni di
ebrei nei campi di sterminio.
A Dachau, presso Monaco,
il 21 marzo 1933 era stato allestito il primo campo di concentramento, in
cui dovevano essere accolti delinquenti di vario genere.
Sarebbero stati creati poi
altri campi di sterminio: Auschwitz, Belzec, Birkenau, Buchenwald,
Mauthausen, Sobibor, Terezìn (riservato ai bambini deportati), Treblinka…
Ma nelle camere a gas e
nei forni crematori dei Lager, oltre agli ebrei, finivano tragicamente la
propria esistenza anche tante altre categorie di persone: zingari, malati
di mente, asociali, disabili, emigrati, omosessuali, prigionieri di
guerra, antifascisti e altri avversari politici.
Non si faceva distinzione
di razza, di sesso e di età.
Tutti luoghi divenuti
tristemente noti, i Lager erano il frutto di una perfetta organizzazione
criminale, dove i deportati sopravvissuti ai patimenti del trasporto nei
carri bestiame, spogliati dei propri indumenti, erano condotti a “fare la
doccia” nelle camere a gas.
I forni crematori
contribuivano all’industria della morte e alla sparizione dei cadaveri.
Funzionavano ininterrottamente giorno e notte, e con le alte ciminiere
diffondevano nell’ambiente un odore acre insopportabile.
Ma peggio della morte
erano i maltrattamenti e le umiliazioni d’ogni genere inflitti alle
persone internate. Gli aguzzini facevano a gara di crudeltà sui
prigionieri, senza distinzione.
Non era infrequente che
alcuni deportati, allo stremo della sopportazione, cercassero la morte e
la trovassero, se non erano abbattuti prima dal mitra delle sentinelle
sulle altane, scagliandosi contro i reticolati di filo spinato,
attraversati da corrente ad alta tensione, che circondavano i campi di
concentramento.
L’annientamento degli
ebrei di varie nazionalità portò anche alla distruzione delle loro culture
e alla scomparsa della lingua yiddish.
L’interrogativo, che si
sono posti in tanti nel secondo dopoguerra, era se il popolo tedesco
sapesse oppure no delle spaventose atrocità commesse nei Lager.
La Germania nazista,
durante la seconda guerra mondiale, aveva istituito qualcosa come 850
campi o Lager, organizzati con migliaia di distaccamenti, anche nei paesi
occupati.
A differenza di quanto
succede oggi, nel XXI secolo, in cui i media la fanno da padroni e ci
mettono al corrente di quanto accade in giro per il mondo, quello in cui
si consumarono i crimini nazisti era invece un mondo non informato.
Sia quello fascista che
quello nazionalsocialista erano regimi autoritari e adoperavano
l’informazione come propaganda politica. I mezzi d’informazione erano
tutti uguali nel dare le notizie e in sostanza non facevano altro che il
lavaggio del cervello della gente, perché tutti la pensassero allo stesso
modo, credessero e obbedissero supinamente ai dittatori.
Gli oppositori politici
erano perseguitati, arrestati, torturati e spesso messi a morte.
Chi se lo poteva
permettere, le notizie non censurate le ascoltava dalla radio clandestina,
messe in onda dagli Alleati. Ma era molto rischioso le spie non
mancavano e le informazioni sulle situazioni dei Lager sembravano così
esagerate, che pochi erano disposti a credervi.
I capi tedeschi, Hitler su
tutti, pubblicamente adoperavano una sorta di linguaggio cifrato,
prestando attenzione a che le notizie tremende della realtà dei Lager non
circolassero liberamente tra la gente. Avrebbe potuto cominciare a
vacillare la fede cieca che i tedeschi riponevano nel Führer e non
trascurabile era il rischio che gli Alleati sfruttassero quelle notizie a
scopo propagandistico.
Va detto però che
centinaia di migliaia erano i tedeschi (comunisti, socialdemocratici,
liberali, ebrei, protestanti, cattolici) internati nei Lager e non era
difficile, per la gente, imbattersi in prigionieri denutriti, ospiti dei
campi, che lavoravano sotto scorta armata per le strade.
Purtroppo il popolo
germanico ignorava il sistema terroristico, le condizioni e i metodi
adottati nei campi di sterminio.
Per Primo Levi, si trattava tuttavia di un’ignoranza colposa. Nella
realtà dei fatti, succedeva che “chi sapeva non parlava, chi non sapeva
non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo
modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua
ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua
adesione al nazismo”. Così, non sapendo, egli rimaneva convinto di non
essere complice di ciò che accadeva
vicino a casa sua.
Auschwitz
nell’elaborazione di Sergio Bernardi
Con Danza macabra
del 1994/1995, Sergio Bernardi, artista trentino d’adozione, che opera
dal 1968 nel settore aniconico del panorama artistico contemporaneo,
ammoniva che tutto ha una fine, compreso il bene più prezioso, la vita.
Tra dicembre 2003 e gennaio 2004 ha
presentato al pubblico, nei locali del Foyer del Centro Servizi
Culturali S. Chiara di Trento, un’ampia antologica delle proprie opere,
in cui uno spazio rilevante era riservato all’allestimento della
performance Auschwitz del
2000/2003.
Ha scelto un tema tremendo, lo
sterminio di massa di Auschwitz, che ha inciso profondamente nella
storia dell’umanità e connotato tragicamente l’immaginario collettivo
nella seconda metà del Novecento, secolo duramente segnato da
interminabili guerre e sofferenze.
È probabile che, quella di Bernardi sia
stata una scelta dettata, oltre che da una personale urgenza di
rivisitazione storico-artistica di uno scenario orrendo, anche dalle
vicende della realtà attuale, che, pur essendo globalizzata, o forse
proprio per questo, è caratterizzata da guerre e terrorismo.
Purtroppo le guerre non cesseranno mai.
Imperfezione o esigenza dell’evoluzione dell’uomo, quale essere vivente,
fanno parte del suo DNA.
Il terrorismo internazionale, dopo il
tragico 11 settembre 2001 di New York, prosegue con lo stillicidio di
fatti orrendi, di una ferocia finora sconosciuta.
La cronaca mediatica fa scorrere
inesorabilmente tutto sotto i nostri occhi. Genera e diffonde
inquietudine e paura, ormai planetarie. Turba continuamente
l’immaginario collettivo e le nostre coscienze.
Bernardi, per l’occasione, ha ideato
una sorta di rito laico per la riesumazione della memoria, con una
mappatura simbolica del dolore e dell’orrore.
Tuttavia è una rievocazione che fa leva
sulla sublimazione. Nondimeno tende a trasmettere agli spettatori, sotto
forma di percezione sensoriale ed emozionale, in un intervallo di tempo
delimitato, all’incirca dieci minuti, patimenti inenarrabili delle
vittime del Lager, che i sopravvissuti, nei filmati storici con le loro
testimonianze, hanno già narrato.
Gli spettatori sono ammessi per gruppi,
non più di una decina per volta, nello spazio sacrale, la sala di
penombre, in cui si compie la performance.
Si entra scalzi, uno per volta. Ognuno
apre il cancello che delimita la porta d’accesso, entra e lo richiude
alle proprie spalle.
Si piomba in una sorta di notte
dell’anima: allusione chiara a una trappola senza via d’uscita e quindi
senza scampo.
Si è sparpagliati, disorientati,
irretiti, coinvolti in una cerimonia che non pretende assolutamente di
essere spettacolo.
Diversi teleri sono alle pareti, con
scure e livide cromie, titolati Auschwitz.
Calchi o impronte funebri ambientali a definire la scarna e rigorosa
scenografia, che l’artista ha predisposto.
Alcuni ritratti ingranditi di persone,
di metà Novecento, sono attaccati anch’essi al muro. Riassumono le
presenze-assenze di coloro che si andrà a rievocare.
Un allestimento pregno di alta
simbologia e suggestione.
Un’enorme camera ardente, severa ed
essenziale. E tuttavia non allestita per la gestione del lutto.
In luogo del catafalco, un’estesa
chiazza rossa sul pavimento con rami-rivoli ricurvi, simbolo del
sacrificio collettivo o di un immenso, estenuato cuore infranto.
La coreografia è di Daniele Zara: il
ballerino-officiante che danza, mima, corre, si arresta, procede a
rilento, tocca, afferra, attrae, riassume, concentra su di sé ogni
attenzione dei presenti.
La musica tematica, Ricorda cosa
ti hanno fatto ad Auschwitz, è di Luigi
Nono. Incombente, metallica, stridente, agghiacciante, sottolinea,
guida, per tutto il tempo, ogni mossa del ballerino.
Un’alchimia senza dubbio riuscita di
scene, suoni e movenze.
E poi i simboli proposti, semplici ma
pregni di significato: il pane azimo degli ebrei, l’incenso del culto
antico del divino, i ritratti degli scomparsi, la candela accesa per
ricordare, la cenere dell’esito finale.
Dopo che gli spettatori sono stati
radunati dal ballerino al centro della sala, sulla grossa macchia rossa,
la musica si fa incalzante, assordante.
Calano le tenebre.
S’ode un urlo inumano, lacerante.
Al ritorno della luce, la musica è
cessata.
In un angolo della sala, il ballerino è
nudo: bocconi sul pavimento.
Mani pietose ne coprono, con un panno
scuro, il corpo esanime.
La Morte ha trionfato. Il gelo è calato
nel turbamento generale.
L’operazione è terminata. Nessun
applauso. Solo il silenzio ne sottolinea la perfetta riuscita.
Si esce tutti dalla sala come dalla
visita ad un campo di sterminio , così come vi si era entrati.
Fuori di essa si può confabulare,
scambiarsi opinioni e punti di vista.
Anche Bernardi, con la sua opera, al
pari di Primo Levi, non giudica. Propone sensazioni cromatiche, visive,
percettive e rievocative, che nello spettatore si fanno sensoriali.
È plausibile, che lui voglia indurre,
nelle persone, una riflessione sulla tragedia di Auschwitz e degli altri
campi di sterminio nazisti.
Per concludere, si può dire che sia la
letteratura che l’arte sono, non solo strumenti, ma veicoli importanti
che possono aiutare, come in questo caso, a fare i conti e a ricucire
con la storia, a rinsaldare valori e ideali spesso trascurati o
calpestati, a ricordare tragedie archiviate o dimenticate, a viaggiare a
ritroso nel tempo per riappropriarsi della memoria.
Esse consentono di interrogarsi, anche
solo per cercare di capire, come sia possibile l’obnubilamento della
ragione, per cui masse di persone, o addirittura popoli interi, si
lasciano talvolta soggiogare e condurre verso il baratro.
Sicuramente, questi due prodotti
dell’ingegno umano possono contribuire a risvegliare la coscienza sopita
e fungere addirittura da vaccino, per immunizzare le generazioni future,
affinché siano sempre vigili verso i rischi che certe tragedie possano
ripetersi ovunque.
(Questo testo,
pubblicato dalla rivista trentina UCT nel 2004, è stato accolto nel 2008
in un libro a più voci su Auschwitz, a cura di S. Bernardi, ed è
presente nel sito
www.angelosiciliano.com).
Zell, 8 dicembre
2008
Angelo Siciliano
PER PRIMO LEVI:
ALLA MEMORIA*
Un'implosione:
gli ebrei i nazisti il lager.
L’Olocausto
incombe.
Una chiazza di
sangue
su un ballatoio
del palazzo
diffusa da una
tivù impietosa.
La gente gradisce
cronache crudeli
ci si
schermisce.
O Jahveh Jahveh,
cos’hai permesso!
L'angelo che
inviasti ad Abramo
che giocò con
Israel, dov'era?
Neutrini ci hanno
attraversati:
ecco numeri sulle
braccia.
Lusinga di una
stella nana
non di un buco
nero!
Zell, aprile 1987
Angelo Siciliano
*
Primo Levi, chimico,
scrittore, ebreo, ex deportato, suicida a Torino, gettandosi nella
tromba delle scale del suo palazzo, domenica, 12 aprile 1987. Non ha
potuto resistere oltre al pesante fardello dei ricordi tragici del Lager
in cui fu internato, anche alla luce di fatti ricorrenti che
attesterebbero che il mondo non ha memoria e la storia sembrerebbe non
avere insegnato alcunché.
Questa poesia uscì
nella raccolta di poesie DEDICHE,
di Angelo Siciliano, delle edizioni ARCA di Trento, nel 1994.
È stata accolta
poi nell’antologia FERMENTI,
Poeti Italiani Contemporanei,
Serie Oro, Vol. 7, edito da Libroitaliano World di Ragusa, nel 2004.
|
|