Nei locali del Foyer, dislocati sotto
l’Auditorium, il Museo Storico in Trento, in collaborazione con la
locale Università, ha proposto una mostra dal titolo “Alla
ricerca delle menti perdute – viaggi nell’istituzione manicomiale”.
Senza dubbio si è trattato di
un’esposizione inconsueta, frutto di un progetto articolato, il cui
obiettivo, a venticinque anni dall’approvazione della legge Basaglia, la
n. 178 del 13 maggio 1978, è stato quello di portare all’attenzione di
tutti, nel corso del 2003, il manicomio, attraverso esposizioni,
dibattiti pubblici, pubblicazioni, rassegne cinematografiche e
spettacoli di danza e teatro.
L’idea portante della mostra in
questione era il manicomio di Pergine Valsugana, vale a dire l’ex
ospedale psichiatrico trentino, la cui storia, oltre che importante in
se stessa, può consentire dei parallelismi con gli altri manicomi
italiani.
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Nel manicomio di Pergine, come in
tutti i manicomi d’Italia, erano ospitati i matti, vale a dire i
pazienti affetti da follia.
Ma cos’è la follia? Un luogo di
confine, potrebbe essere la risposta, nei cui meandri una persona si
smarrisce e gli altri, i normali, ne osservano dal di fuori la
diversità e di solito non capiscono.
Tra genio e pazzia, raccomandava
qualche vecchio maestro, non c’è che un passo.
La follia, questa subdola
sconosciuta, non fa differenza tra classi sociali o categorie
professionali, nel senso che può cogliere chiunque, costringendolo
poi ad un calvario personale, talvolta infinito e senza via
d’uscita.
Tuttavia, per quanto riguarda il suo trattamento e la sua cura,
qualche differenza o meglio discriminazione l’ha sempre fatta, nel
senso che i matti poveri erano affidati a qualche manicomio e lì
gioco forza abbandonati, quelli ricchi potevano cavarsela molto
meglio, in qualche clinica privata.
Quindi, la sventura peggiore per un
matto era ed è quella d’essere povero. E la povertà, in questi casi,
è sinonimo di solitudine, dimenticanza, abbandono anche da parte dei
parenti prossimi, soprattutto quando ad avere il sopravvento è il
pregiudizio.
Cesare Zavattini diceva che i poveri sono matti.
Io mi ricordo com’era per i matti
del Sud, dove trascorsi la mia giovinezza. Una volta, da ragazzino,
assistetti, nel mio paese natio, alla caccia data ad un pazzo, un
vedovo di mezza età scappato lungo un vallone. Inseguito e braccato
come un animale selvatico, da decine di uomini, fu catturato, legato
come un salame con una lunga corda, di quelle che si adoperavano per
gli asini, e consegnato ai carabinieri. Costoro, si seppe poi,
l’avevano affidato al manicomio d’Aversa.
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Di questo matto, negli anni successivi,
non si ebbero più notizie. Come di tanti altri matti del paese che, una
volta varcato il cancello di un manicomio, erano dimenticati, in quella
sorta di reclusorio infernale, e ne uscivano solo da morti. La loro
salma non era nemmeno reclamata dalla famiglia. Il funerale avrebbe
aggiunto solo altra vergogna e fatto parlare la gente. Ma nel cuore
delle madri di quegli sventurati permaneva una ferita che non si
cicatrizzava.
Capitava pure che qualche depresso non
finisse in manicomio, perché non era molesto. Se però il suo stato
evolveva verso la demenza, allora era trattato come lo scemo del
villaggio, diventando per anni lo zimbello di tutti.
Talvolta la follia irrompe
improvvisamente nella cronaca nera, quando ci casca il morto, vittima,
come si dice in questi casi, di un accesso di follia di qualcuno,
apparentemente normale o che qualche segno di squilibrio, in precedenza,
l’aveva già dato.
La follia non risparmia nemmeno gli
artisti e i poeti. Van Gogh la fece finita, sparandosi un colpo di
pistola, dopo essersi amputato un orecchio per un litigio con Gauguin.
Gino Rossi in manicomio vi finì i suoi giorni. Alda Merini vi ha
trascorso sette anni della sua vita. E l’elenco potrebbe continuare per
molto.
La legge che porta il nome di Franco
Basaglia, psichiatra illuminato e sempre in prima linea, fu approvata
dopo molte battaglie. Essa prevedeva la chiusura dei manicomi. Sarebbe
così cambiata radicalmente la vita dei malati di mente. Una specie di
rivoluzione, a cui guardavano con curiosità e interesse anche alcuni
psichiatri stranieri. Ma ce ne sono voluti di anni prima di chiudere
definitivamente i manicomi!
Ma i matti oggi dove sono? Sono in mezzo a noi, invisibili. Dimorano in
strutture aperte, gestite e autogestite. Anche prima erano invisibili,
ma solo perché erano chiusi fisicamente in manicomio, affinché fossero
isolate le loro menti.
L’iter per istituire il manicomio di
Pergine non fu una cosa semplice.
Già nel 1807, sotto il governo bavaro,
si era ipotizzato di dover creare due manicomi. Uno a Innsbruck e un
altro in Trentino, a Trento o a Rovereto.
I malati trentini erano ricoverati in
ospedali del Lombardo-Veneto.
Nel 1830 fu aperto un manicomio a Hall
presso Innsbruck, dove dovevano essere accolti anche i malati di mente
trentini.
Nel 1850 il medico Francesco Saverio
Proch sollecitava la creazione di un manicomio in Trentino.
Il 12 ottobre 1874, la Dieta tirolese
deliberò la creazione di un istituto manicomiale nel Tirolo italiano.
Scelta Pergine Valsugana come luogo per
il manicomio, nel 1879 l’impresa edile Scotoni iniziò a costruire
l’edificio, progettato dall’ingegner Josef Huter, secondo la consueta
forma ad E degli edifici, aventi lo stesso fine, esistenti nel resto
dell’Impero austro-ungarico.
Ultimati i lavori, il manicomio di
Pergine fu aperto nel 1882, con una capienza di duecento posti letto.
Ben presto però iniziò a soffrire di problemi di sovraffollamento.
Nel 1902 fu approvato il suo
ampliamento con due nuovi padiglioni, la camera mortuaria, l’officina
per il fabbro e la portineria, ultimati nel 1905.
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Fu acquistato un terreno per
organizzarvi una colonia agricola per i degenti tranquilli.
Durante la prima guerra mondiale,
l’Austria destinò l’edificio principale ad ospedale militare e i
degenti, fatta eccezione di quei pochi addetti alla colonia
agricola, furono trasferiti in diversi manicomi dell’Impero.
Finita la guerra, la struttura
passò all’Italia e accolse dal 1923 anche i malati altoatesini di
lingua tedesca, provenienti da Hall. Nel 1929 essa fu assoggettata
alla legge italiana sui manicomi del 1904.
Dal 1936, alla direzione
dell’ospedale psichiatrico di Pergine fu affidata la sorveglianza
sulla “Colonia agricola provinciale per infermi di mente
tranquilli”, istituita a Stadio, nel comune di Varena, dalla
Provincia di Bolzano.
Col tempo la struttura di Pergine
fu ancora ampliata, sino a raggiungere la capienza di 750 posti
letto.
Negli anni della seconda guerra
mondiale, a causa delle cattive condizioni di vita, la mortalità tra
i ricoverati subì un brusco incremento.
Si consumò anche un dramma
terribile. A causa dell’accordo italo-tedesco sulle opzioni del
1939, ben 299 malati d’origine tedesca, nel 1940, furono trasferiti
nell’ospedale psichiatrico tedesco di Zwiefalten e molti di loro
furono soppressi dal regime nazista.
Nel secondo dopoguerra il
sovraffollamento della struttura fu un problema costante
raggiungendo, negli anni Sessanta, punte di 1600/1700 degenti.
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Molti cambiamenti si sono succeduti
negli anni. Primo fra tutti, decadeva l’obbligo di annotare nel
casellario giudiziario i ricoveri dei pazienti, grazie all’abrogazione
dell’art. 604 n. 2, del codice di procedura penale. S’innovavano le
procedure e le tecniche terapeutiche.
In seguito all’approvazione della legge
Basaglia, dal 17 luglio 1978 e fino ad aprile 1981, furono ricoverati
nella struttura solo malati recidivi, rifiutando gli altri.
Dal 1° gennaio 1982, la Provincia
Autonoma di Trento trasferì la competenza del servizio di salute mentale
alla Unità sanitaria locale. Rimanevano presso il manicomio di Pergine
solo i malati ricoverati al momento dell’entrata in vigore della legge
Basaglia.
Il manicomio di Pergine è stato chiuso
in novembre 2002.
La mostra presso il Foyer era ampia e
alquanto articolata.
Era esposta una lunga serie di ritratti
dei matti, fotografati al momento del ricovero. Un campionario variegato
della sofferenza psichica, attraverso i tratti somatici d’uomini e
donne. Alcuni con la faccia scavata e i muscoli contratti, gli occhi
sbarrati come quelli di un primate spaventato, le labbra serrate e la
testa rapata a zero, per tenere lontani pidocchi e lendini.
C’erano le foto della struttura
ospedaliera, con interni ed esterni, quelle dei dottori e alcune carte
planimetriche.
Era in bell’evidenza un campionario
degli strumenti adoperati: apparecchi dentistici, strumenti oculistici,
sterilizzatori, bilancino di precisione, un apparecchio per
l’elettroshock e camicie di forza. Insomma, oggetti tremendi anche per
noi posteri. Nel nostro immaginario, alcuni di essi persistono come
strumenti di tortura, anche se in passato essi avevano finalità
terapeutica.
Erano esposte alcune opere pittoriche
eseguite dai matti e alcuni manifesti, relativi a convegni e dibattiti
tenutisi in passato.
Il mondo dell’arte si è occupato anche
della follia e l’ha rappresentata nella sua crudezza e drammaticità.
Erano in mostra molte opere pittoriche
originali di Remo Wolf, Guido Polo, Bruno Caruso, Carlo Zinelli, Gino
Sandri e alcune riproduzioni di opere di Carlo Girardi. In tutte le
opere esposte di questi artisti, c’era sì una rappresentazione estetica
personale della follia, ma era ben leggibile anche un’intima
partecipazione al dramma di quest’umanità sofferente e derelitta.
Il catalogo della mostra, con molte
illustrazioni, è curato da Rodolfo Taiani e pubblicato dal Museo Storico
in Trento. (Questo testo, pubblicato
nel 2003 nel n. 337-338 della rivista trentina U.C.T., è fruibile nel
sito
www.angelosiciliano.com).
Zell, 4 dicembre 2002
Angelo Siciliano
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