Un mondo arcaico ricco,
complesso e variegato
.
A Montecalvo Irpino, come in altri
luoghi dell’Italia centrale e meridionale, e non solo, si è
praticata per secoli e tramandata oralmente un’interessante varietà
di operazioni rituali, nell’ambito del magico e del mitologico,
ciascuna con una finalità ben precisa.
Un mondo senza retorica, quello
contadino, fatto di gesti misurati ed essenziali, che badava alla
sostanza ma non trascurava le apparenze. Un mondo di miti e
leggende, in cui la storia si stemperava o annullava per alimentare
altre leggende. E la memoria, dote essenziale e imprescindibile
della saggezza contadina, persisteva tra sconfitte, rimpianti e
qualche rivincita che trasfigurava gli eventi attribuendogli valore
e significato particolari, persistenti nel tempo.
Qualcosa sopravvive di quella
stupefacente cultura arcaica, fatta di superstizione, credenze
magiche e religiose, miti, radicati tabù e inibizioni. Permane
tuttora nei racconti degli anziani, e nel mondo contadino è in parte
ancora praticata, come succede per la rimozione del malocchio.
Era una realtà esclusivamente
contadina, ignorata o dileggiata da nobili e piccoli borghesi, e
solo in parte conosciuta e praticata dagli artigiani che ne facevano
talvolta anch’essi oggetto di derisione.
Si operava al di fuori della
religione, che ha sempre osteggiato e condannato queste pratiche,
anche se spesso le formule recitate presentano contaminazioni col
sacro, perché si riscontrano invocazioni di santi o collegamenti con
festività religiose.
Figure emblematiche del mondo
contadino erano li ffattécchje, li mavàri
e li masti d’attìja, fattucchiere, maghi e guaritori. Ad essi si
faceva ricorso per fatture d’amore o di morte; pi si fa addivinnà,
per conoscere la propria sorte, o quella di un figlio soldato
partito per la guerra, che non dava più notizie di sé. Si andava
anche pi si fa ‘ncantà nu male, per neutralizzare o guarire da
qualche male.
Lu maluócchji, il malocchio, erano
e sono in grado di rimuoverlo in diversi, facendo cadere in
successione tre gocce d’olio d’oliva in un piatto, o in una
bacinella con dell’acqua pura e recitando, al cospetto di chi ne è
vittima, una formula magica.
Si ricorreva a formule rituali,
recitate a mo’ di filastrocche, in coincidenza del rito pasquale
dello scioglimento delle campane per la resurrezione di Cristo, per
uno dei seguenti motivi: cacciare i parassiti dalla propria camera
da letto; invocare un’abbondanza di more di gelso; chiedere che una
bimba cominciasse finalmente a camminare.
Li ghjanàri, li lupi pumpinàri e li
scazzamariéddri, janare,
lupi mannari e folletti, erano esseri onnipresenti nei racconti dei
contadini e sia alle janare
che ai lupi mannari si dava spesso una tangibilità corporea. Non era
raro, infatti, che a causa di un comportamento visto come “diverso”,
certe donne o certi uomini erano ritenuti, a torto o a ragione, janare
o lupi mannari.
Non si hanno notizie di sedute
medianiche tra i contadini. La presenza spiritica era avvertita, ma
molto temuta, e i tanti verosimili racconti sulla comparsa degli
spiriti, in vari punti del territorio, spaventavano nottetempo i
bambini e impressionavano parecchio pure gli adulti.
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(
Notte 'Ncoppa munticalivu - dipinto di A.Siciliano - )
( L'unguientu
magicu - dipinto di A.Siciliano - )
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Il malocchio
Le persone possono essere vittime
del malocchio, a causa del loro benessere, buono stato di salute,
bellezza, floridezza ecc. E uno solo, o tutte queste qualità e
caratteri esteriori messi insieme possono scatenare nello
iettatore-iettatrice quelle energie e sentimenti negativi,
identificabili nell’invidia, gelosia, antagonismo, livore, rivalità,
intima e dissimulata astiosità che, proiettando sul malcapitato il
loro influsso malefico, lo inducono in uno stato di malessere
parziale o generale, riconoscibile in un mal di testa improvviso,
del tutto inspiegabile, o in una sorta d’astenia molto evidente. Al
pari delle persone possono essere vittime del malocchio anche gli
animali domestici.
Dire lu pìgliun’a d’uócchji,
metaforicamente sta a significare che qualcuno teme di essere o è
nelle condizioni invidiate, e per questo indesiderate, di poter
subire il malocchio.
Il malocchio, quindi, è riferibile
allo stato di malessere in cui versa una persona o un’animale
domestico, che non trova spiegazioni in una motivazione plausibile
d’ordine fisiologico.
Almeno
nelle persone, però, attendibili potrebbero essere le implicazioni
d’ordine
psicologico, e in particolare quelle riconducibili alla sfera
dell’autosuggestione. Quindi non resta che rivolgersi alla persona
giusta, perché ripristini, col suo intervento e le proprie capacità,
l’equilibrio preesistente l’influsso negativo del menagramo.
È in grado di togliere il malocchio
la persona che ha maturato una lunga pratica, è conosciuta dalla
gente, gode della sua fiducia e della sua stima. Spesso è una donna
che fa l’uócchji, fa gli occhi, ma talvolta potrebbe essere anche un
uomo a dilettarsi in questo tipo di “interventi”.
Lo si faceva e lo si fa
gratuitamente – una sorta di volontariato ante litteram, fenomeno,
questo, che sarebbe maturato molto più tardi nella società del
benessere e del consumismo –, anche perché ci si muoveva in un
contesto rurale, ricco di valori umani e solidali, ma di fatto
materialmente povero o al limite della sussistenza.
Gli strumenti rituali adoperati
sono un piatto, o una bacinella, dell’acqua pulita e dell’olio
d’oliva.
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(
Contro il malocchio per il maiale - dipinto di A.Siciliano -
Zell 15/07/2005) |
Al cospetto del soggetto da
sottoporre alla rimozione del malocchio, l’operatrice fa scivolare
dalla punta dell’indice destro, da un’altezza di venti-trenta
centimetri, la prima delle tre gocce d’olio sull’acqua. Se la goccia
d’olio si apre e scompare repentinamente nell’acqua, producendo dei
filamenti serpentiformi verso il fondo del piatto, è consuetudine
ritenere che il soggetto è stato colpito da malocchio. E dalla
velocità della sparizione dei residui oleosi della goccia, si cerca
di interpretare l’intensità della carica negativa, più o meno
pesante, del maleficio che ha provocato lo stato in cui si trova il
malcapitato.
Se la seconda e la terza goccia
scompaiono anch’esse, l’operazione va ripetuta con altre tre gocce
d’olio, dopo aver cambiato l’acqua nel piatto.
Il malocchio è rimosso quando una
goccia d’olio, lasciata cadere come le precedenti, galleggia intatta
sull’acqua e se lo stesso fenomeno si verifica con quella
successiva. A questo punto si ritiene che esse, metaforicamente,
rappresentano gli occhi. L’equilibrio psico-fisico della persona si
può considerare ripristinato e l’operazione positivamente conclusa.
Questo rito del piatto, dell’acqua
e dell’olio, solitamente è accompagnato dalla recita di qualche
formula magica.
L’operatrice si fa per tre volte il
segno della croce e ogni volta recita: «Crisci
e shcàttimi l’uócchji!», «Cresci e schiattami gli occhi!».
Contemporaneamente fa il segno della croce anche sul piatto con
l’acqua e vi lascia cadere dentro tre gocce d’olio in successione.
Normalmente le prime due serie di
gocce scompaiono e ogni volta va cambiata l’acqua nel piatto, per
poter ripetere l’operazione.
Esiste anche un modo di togliere il
malocchio solo con la gestualità, accompagnata dalla recita di una
formula magica. In questo caso non servono piatto, acqua e olio.
L’operatrice si fa per tre volte il segno della croce, procedendo
prima in senso orizzontale e poi in quello verticale. Ogni volta
tocca col pollice la fronte della persona da guarire, le fa per tre
volte il segno della croce e recita la frase: «Crisci
e shcàttimi l’uócchji!». In totale saranno tre segni di croce per
l’operatrice e nove per la persona da guarire. Alla fine afferra una
ciocca di capelli, sulla fronte della persona sottoposta alla
procedura di rimozione del malocchio, la tira delicatamente verso di
sé, lasciandosela sfilare tra pollice e indice, e pronuncia la
parola «Crisci!»,
per una volta sola.
Ferme restando le procedure sopra
elencate, invece della formula «Crisci
e shcàttimi l’uócchji!», qualche operatrice adopera le frasi
alternative «Shcatta,
maluócchji, e ccrisci!», «Schiatta, malocchio, e cresci!», oppure «Malòcchjo
scalivacàni!», «Malocchio da scavalcare!».
Tutti questi tipi di procedure
erano adottati, nell’identico modo, anche per gli animali domestici:
maiali, vacche, vitelli, cavalli, muli e asini, essenziali per
quell’economia di sussistenza, cui si accennava prima. Era il
proprietario a farne richiesta, quando supponeva che un suo animale
fosse rimasto vittima del malocchio. L’eventuale esito positivo
della procedura adottata, almeno nel caso degli animali, non poteva
essere certamente attribuito a motivazioni d’ordine psicologico.
Qualche madre, preoccupata che il
proprio bimbo potesse cadere vittima del malocchio, gli preparava un
raccapricciante amuleto arcaico: tagliàva na uancia di talipinàra;
la mittéva ‘nd’à na burzètta, e cci l’appinnéva ‘nganna; amputava
una zampetta a una talpa; la chiudeva in una borsettina, e
gliel’appendeva al collo.
Formule magiche per propiziare rimedi o guarigioni
Diverse filastrocche erano recitate
per tre volte, con la speranza di ottenere rimedi o guarigioni.
Come già visto per il malocchio,
anche qui ricorre la recita reiterata per tre volte.
Il numero tre in occultismo ha
valenza sacra e magica, e rappresenta la luce. È stato adottato
anche nelle religioni: come triade, con Brahma, Siva e Visnù, in
quell’induistica; come Trinità, con Padre, Figlio e Spirito Santo,
nella cristiana.
Per il mal sottile, malisìccu,
da cui era affetto un bambino, si consultava una fattucchiera e il
bimbo veniva unto dalla madre o dalla nonna, mammanònna,
con grasso di maiale maschio, dopo essersi accordati con un
familiare che di lì a poco sarebbe entrato dalla porta e avrebbe
chiesto:
«Che ffaji?»
«Ammàssu!»
«Crisci,
com’a nu puórcu màsculu!»
«Che fai?» / «L’impasto per il
pane!» / «Cresci, come un maiale maschio!».
Questa formula dialogata era
recitata per tre volte. Poi si lavava il bimbo cu la jòtta,
l’acqua residuata dopo aver lessato la pasta, o preparata
appositamente facendo bollire nella pentola un po’ di farina di
grano con acqua. Tutta l’operazione era da ripetere per tre sere di
seguito.
La variante della formula
precedente era che, dopo l’unzione, si recitasse per tre volte la
seguente formula: «Crisci, com’a nu puórcu rassu!», «Cresci, come un
maiale grasso!».
Se un bimbo tinéva la lanca, cioè era vorace,
mangiava troppo e aveva la pancia gonfia, lo si portava davanti ad
un forno acceso, dove stavano per essere infornate le forme di pasta
lievitata che sarebbero diventate pane, lo si prendeva in braccio e
lo si faceva scorrere lentamente davanti all’imboccatura del forno
per tre volte, recitando ogni volta la seguente formula:
Sàzijiti, vócca di lupu,
màmmit’è pputtàna
e ppàtit’è ccurnùtu!
Sàziati, bocca di lupo, / tua madre
è puttana / e tuo padre è cornuto!
I figli dei contadini erano
allattati dalle madri fino all’età di due anni e talvolta anche
oltre, ma se un bambino era restio svezzarsi, la madre doveva
procedere come segue:
Li priparàva nu
pizzìddru:
cu la mani mancìna l’ammassàva,
cu la mancìna lu
frijéva
e ssèmpe cu la mancìna
ci lu prujéva pi
‘rrét’a lu culu.
Sùbitu lu crijatùru si
smammàva!
|
(
Divinazione: soldato vivo - Dipinto di A.Siciliano -
Zell 3/07/2005) |
Gli preparava una pizzetta: / con
la mano mancina lo impastava, / con la mancina lo friggeva / e
sempre con la mancina / glielo porgeva per dietro il sedere. /
Subito il bimbo si svezzava!
Il sabato santo era atteso con
trepidazione dai contadini, dato che a mizzijuórnu scapulàvunu li
ccampàni, a mezzogiorno venivano sciolte le campane per suonarle a
festa e annunciare così la resurrezione di Cristo.
Si potevano recitare tre
filastrocche aventi finalità differenti: allontanare i parassiti dal
letto; invocare un’abbondanza di more di gelso; chiedere che una
bimba iniziasse finalmente a camminare.
Per allontanare i pidocchi e le
cimici dal letto, appena le campane attaccavano a suonare, con un
bastone o una forcina, di quelle che s’adoperavano per rivoltare e
livellare l’imbottitura dei materassi, si picchiava per tre volte
sotto il letto, recitando ogni volta la seguente formula:
Fuji fuji, cimmiciàru,
ca ti sócchita
campanàru!
Fuggi fuggi, cimiciaio, / che ti
scaccia il campanaro!
Si andava sotto un gelso e,
auspicando che a fine primavera esso producesse more abbondanti, si
picchiava per tre volte con un bastone sul suo tronco, recitando per
tre volte la seguente formula:
Li ccampàni scapulànnu
e lu ciévuzu caricànnu!
Le campane a suonare a festa / e il
gelso a caricarsi di more!
Per una bimba piccola che ritardava
a camminare, si recitava per tre volte la seguente formula:
Li ccampàni scapulànnu
nénna mija camminànnu!
Le campane a suonare a festa / la
mia bimba a camminare!
A partire dalla metà del Novecento,
la tradizione di queste tre operazioni rituali si è perduta, a causa
del rinnovamento della liturgia pasquale: le campane sono sciolte e
suonate non più a mezzogiorno del sabato santo, ma con la messa
della notte di Pasqua.
Se una persona aveva un braccio
fratturato, si recava presso un albero di saùciu,
sambuco, e cu na spìnula, con un succhiello, produceva un foro nel
suo tronco e v’introduceva n’àcinu di sale, un granello di sale.
Dopo di che recitava per tre volte la formula seguente:
Saùciu, mìju saùciu,
quistu male t’arraddùce,
s’éjà mìliza o jà cascàta,
quistu male sìja
chjavàtu!
Sambuco, mio sambuco, / questo male
sia ridotto, / se è milza o è caduta, / questo male sia sanato!
Quando una persona aveva subito una
storta ad un braccio, o aveva un polso, oppure un gomito infiammato,
a causa di una tendinite, si recava da due giovani sorelle nubili
portando con sé due fusi. Le ragazze prendevano con una mano un fuso
ciascuna e li agganciavano pi li mmóschili, per i due piccoli
uncini. L’infermo vi collocava sotto il braccio e le due ragazze
recitavano insieme all’unisono, per tre volte, la formula seguente:
Dóji sorelle simu,
mmaritàni ci vulìmu,
quistu niérivu ‘ncavalcàtu
scalivacàre lu vulìmu!
Due sorelle siamo, / maritare ci
vogliamo, /questo nervo accavallato /scavalcare lo vogliamo!
Per l’artrosi ci si recava da lu mavàru o da lu mastu d’attìja che, dopo aver
toccato con le mani la parte malata del paziente, recitava con lui,
per tre volte, la seguente formula dialogata:
«Attrósi,
mija attrósi,
andó vaji?»
«Vavu
andó Casimìru!»
«Che bbaj’a ffàni?»
«A spaccà l’òssira
a lu chjanchiéru!»
«Artrosi, o mia artrosi, / dove
vai?» / «Vado da Casimiro!» / «Che vai a fare?» / «A spaccare le
ossa / al macellaio!».
Da Vicènza Còcciadaglia, alla lettera
Vincenza Bulbo d’aglio, detta Vicinzóne,
si recava chi aveva una cavalla da rendere fertile, per poter poi
farla ingravidare.
Dopo aver palpeggiato la bestia, Vicinzóne
diceva: «Jat’a ppiglià na
giarra di vinu, ca dam’a bbév’a la jummènta!», «Andate a prendere
una giara di vino, che diamo da bere alla giumenta!».
Ma quel vino se lo beveva lei.
«Na
virnàta sana, a ccarijà paglia cu nu saccu, pi la jummènta ca paréva
préna. Ma quéddr’era prén’a bbiéntu!», «Un inverno intero, a
trasportare paglia con un sacco, per la giumenta che pareva gravida.
Ma la sua era gravidanza isterica!», si lamentava il proprietario
della bestia, col rammarico di chi, gabbato, vi aveva rimesso paglia
e vino.
Una ragazza in preda alle pene
d’amore poteva far ricorso ad un’erba selvatica, la murélla,
erba vetriola. Ne raccoglieva un po’, se la metteva in bocca e la
masticava. Poi applicava la poltiglia così ottenuta sull’epidermide
di un suo braccio e recitava la seguente filastrocca:
Mura murélla,
si lu ‘nnammuràtu miju
mi vóle
béne,
famm’ascì na bèlla
rusélla!
Si lu ‘nnammuràtu miju
mi vóle male,
famm’ascì na scòrcia di male!
Mura murélla, / se l’innamorato mio
/ mi ama, / fai comparire una Rosellina! / Se l’innamorato mio / non
mi ama, / fammi venire un’eruzione cutanea!
Recitando questo testo, come
formula magica, l’esito poteva essere positivo, oppure negativo.
Maghi, veggenti e divinazioni
I maghi e le fattucchiere, mavàri e ffattécchje, erano in
grado di operare per il bene o per il male, con l’incantesimo e con
una serie d’atti, gesti, formule magiche e con l’uso di specifici
materiali.
Essi potevano intervenire in
maniera attiva, con i loro poteri, sulle forze occulte per
soggiogarle, oppure, in maniera passiva, interpretando evidenze o
eventi di carattere psichico o psico-fisico dando luogo alla mantica
o divinazione, in pratica
addivinnàni.
Agivano su richiesta delle persone
e dietro ricompensa, con trattamenti personalizzati sia nella
pratica della magia bianca che in quella nera.
Nell’ambito della prima, si
facevano fatture d’amore o d’affezione.
Per le fatture d’amore si ricorreva
al beverone, lu buviróne, ed
era il maschio ad esserne l’oggetto-vittima. Esso consisteva in una
bevanda d’uso comune, indifferentemente vino, orzo, o caffè, in cui
si mescolavano alcune gocce di sangue mestruale della ragazza o
della donna, verso cui si voleva che nascesse, nel maschio
“abbeverato”, un sentimento di passione indissolubile.
Quando un giovanotto,
inspiegabilmente perdeva la testa pi na figlióla mancàta, una
ragazza non più illibata, giacché si vociferava che essa fosse stata
posseduta da altri maschi, e per questo odiata dalla madre di lui,
quest’ultima, in preda alla disperazione, metteva in giro la voce
che il figlio era stato “abbuviràtu”.
E la gente faceva “lu dìcica dìcica”: per il paese si rincorrevano
dicerie, pettegolezzi, pregiudizi e s’inventavano scene piccanti
alquanto verosimili.
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( La scurzinale -
dipinto di A.Siciliano -
Zell 09/07/2005) |
La
póliva di li muórti, polvere dei
morti, prodotta dal mago con ossa macinate dei defunti, era fornita
al richiedente per cospargerla sulla “vittima”, affinché questa,
ormai disamorata, ritrovasse la via del sentimento perduto, o
l’affetto smarrito per il coniuge o la propria famiglia.
Nell’ambito della magia nera,
invece, i cui scopi erano malefici, i maghi creavano fatture di
morte coinvolgendo le forze negative demoniache, e l’effetto estremo
era la morte del soggetto, obiettivo dell’incantesimo. Esempio
emblematico è quello della
pitàgna, calco dell’orma del
piede d’un ladro, fatto con la corteccia fresca di noce da parte del
derubato, che, con un opportuno rituale magico di morte operato dal
mago, serviva per provocare in breve tempo il decesso del
malfattore.
Non si ha notizia della
preparazione o dell’uso di pozioni magiche, intrugli ripugnanti che
si riscontrano di frequente nelle pagine dei libri di magia o
stregoneria, ma qualche mago distribuiva dell’acqua con proprietà
salutari, allo scopo di favorire la guarigione da qualche malanno.
Personalmente, da ragazzo, verso la
fine degli anni Cinquanta del Novecento, fui testimone della
consegna d’una bottiglia di quell’acqua al mio nonno materno, tatóne,
sofferente per un epitelioma ad una tempia. Il mago era Naspóne,
contadino e ultimo mavàru
montecalvese, che viveva da troglodita in un pagliaio di contrada
Chiaira. Quell’acqua portentosa, con cui detergere la ferita
ulcerosa, non avrebbe però sortito alcun effetto e il nonno decedeva
di lì a un paio d’anni,
tra non poche sofferenze fisiche.
Qualche mavàru
praticava riti divinatori, rivelando le sue percezioni
extrasensoriali sulle condizioni di salute di una persona
fisicamente non presente, ricorrendo al semplice contatto manuale di
un suo indumento, solitamente una maglia intima, che altra persona
gli aveva recato su delega dell’interessato.
Durante le due guerre mondiali, si
era in trepidazione per la sorte dei figli arruolati come soldati e
avviati al fronte. Quando passavano dei mesi senza che si
ricevessero più notizie, le mamme si allarmavano e, accompagnate da
un familiare, si recavano da qualche fattucchiera, che godeva fama
di veggente, per conoscere la sorte dei propri figli. La
fattucchiera conduceva i familiari del soldato in un luogo buio, di
solito una cantina, con una candela accesa in mano e un piatto con
dell’acqua e dell’olio che vi galleggiava sopra. Se durante il
rituale divinatorio ed evocativo compariva una piccola figura in
piedi sul piatto, significava che il soldato era vivo e vegeto da
qualche parte. Se invece, si formava un’ombra nell’acqua sul fondo
del piatto, il soldato era morto, caduto in combattimento, o
deceduto per malattia o altro motivo. E in questo caso la
fattucchiera cercava le parole giuste e misurate, per comunicare la
triste notizia ai familiari lì convenuti.
Indovine occasionali delle
contadine erano li zzénghiri, le zingare, ma era più un espediente
per levarsele di torno, donando loro qualcosa, perché erano temute e
non godevano di alcuna fiducia.
Si favoleggiava tra i contadini
montecalvesi di un veggente dell’Ottocento, Munitóre,
che pare così sentenziasse: «Ita vidé abbulàni auciéddri senza
scéddre, córre carròzzi senza cavàddri. Cu li guèrri, pi mmancànza
d’uómmini, li ffémmini s’hann’abbrazzà cu l’àrbuli!», «Vedrete
volare uccelli senza ali, correre carrozze senza cavalli. Con le
guerre, per mancanza d’uomini, le donne s’abbracceranno agli
alberi!».
Scongiuri, maledizioni, sortilegi, Scurzinàle
e civetta
La malaùrija
era ed è il cattivo augurio che, nella superstizione, si attribuisce
a determinate figure umane, gli iettatori, o al verificarsi di certi
eventi particolarmente nefasti, ritenuti forieri di guai, o
addirittura tragedie.
Gli scongiuri, sotto forma di
esclamazioni, servivano a tenere lontano da sé gli eventi temuti, o
il maligno. Quelli più adoperati erano: Mancu li cani!, Nemmeno ai cani!; Jà bruttu mancu li cani!, È
più brutto dei cani!; A li cani dicènnu, póte puru succède quéddru
ca mancu si crede!, Riferendoci ai cani, potrebbe anche accadere ciò
che neanche ci s’immagina!; A chi vuónn’arricchì!, A chi vogliono
arricchire!; Puzza milli cummiénti!, Assomma la puzza di mille
conventi!; Lè’ lè’, mancu
pùlici ‘nd’à cquiddri panni!, Per carità, nemmeno pulci in quegli
abiti!; Tèh, maramèu!, Deh,
marito mio!; Mar’a iddru,
ch’ave muórtu!, Poveretto lui, che è morto!;
Signóre, scànzini!,
Signore, evitaceli!; Squaglia, diàvulu, e vvinci, Ddiju!, Sparisci,
o diavolo, e vinci, o Dio!
Delle centinaia di malisintènzie,
maledizioni, che ho raccolto in questi anni, alcune sono terribili.
Veri e propri anatemi, erano “scagliate” nei momenti di collera e
obnubilazione, soprattutto dalle donne, che nel sistema patriarcale
godevano di scarso potere personale e non possedevano adeguati
strumenti d’autodifesa psicologica, nei confronti delle persone che
erano loro più vicine, i familiari, o verso quegli estranei ritenuti
causa di danni reali o presunti.
Eccone una breve selezione: Chi pòzza murì ‘mpalàtu!, Che possa morire in piedi!; Lu pòzz’abbrucià nu lampu, ‘aria
strinàta!, Possa bruciarlo un lampo, a ciel sereno!; Avéssa jì abbajànnu pi ccòpp’a la
fòssa!, Dovrà vagare abbaiando sulla propria tomba!; Adda campà
ciént’anni, cu li pann’appìs’a la sèggia!, Deve vivere cento anni,
con gli abiti appesi alla sedia!; Adda magnà lu ppane ‘nd’à lu
cìcinu e bbéve l’acqua ‘nd’à lu farnale!, Dovrà mangiare il pane
nell’orcio e bere l’acqua nel crivello!; Adda parà chjù ccòrna iddru,
ca na césta di lamiénti!, Dovrà subire più corna lui, di quelle
contenute in una cesta di lumaconi!; L’avìssina taglià lu
frishchèttu!, Devono mozzargli il pene!; Chi pòzza murì cacànnu!,
Che possa morire cacando!; Chi li pòzzunu fa na fattura di morte!,
Che gli facciano una fattura di morte!; Lu pòzzunu fa a ssapóne!, Che lo
facciano a sapone!; Si l’adda spènne di mmidicìni quiddri sòldi!,
Dovrà spenderseli di medicine quei soldi!; ‘N zi pòzza maji vidé
saziju di pane!, Che non possa mai sentirsi sazio di pane!; S’adda
muzzicà andó’nn’arriva!, Dovrà mordersi la parte del corpo a cui non
arriva!; Nun zi pòzza maj’accòglie!,
Che non possa mai ritrovarsi!; Si l’hanna magnà li sùrici!, Se lo
mangeranno i topi!; L’avéssa minì nu culèr’a ffuócu!, Gli dovrà
venire un colera a fuoco!; Avéssa murì chi ci vóle male!, Dovrebbe morire chi desidera il
nostro male!; Lu pòzza sarde
vivu Sant’Andònju!, Che lo arda vivo S. Antonio!; L’avìssina cavà l’uócchji
e cci l’avìssina métte ‘mmani, cóm’a Ssanta Lucìja!, Gli devono
cavare gli occhi e metterglieli in mano, come a Santa Lucia!; Li pòzza minì lu male di Santu Dunatu!, Che gli venga il male di S.
Donato (l’epilessia)!
Si recitava una filastrocca di
maledizioni, rivolta da uno zio ad un nipote, ma per fortuna o
sfortuna di costui solo l’ultima risulta veramente infausta:
Nipo’, ti puózzi rómpe lu razzu!
Ti uarìsci.
Ti puózzi rómpe la
còssa!
Ti uarìsci.
Ti puózzi ‘nzurà!
Nipo’, che tu possa romperti un
braccio! / Guarirai. / Che tu possa romperti una gamba! / Guarirai.
/ Che tu possa prendere moglie!
Insomma, prender moglie nel mondo
contadino, in certi casi poteva rivelarsi un guaio serio,
irrimediabile. Senza il divorzio, sposarsi poteva essere una scelta
che rovinava per il resto della vita.
Lu/la Scurzinàle,
grosso e lungo serpente di sesso maschile o femminile, terrifico e di età
secolare, con due corna ricurve sulla fronte, esercitava un
sortilegio sulle persone che casualmente s’imbattevano in essa.
Traumatizzava donne e bambini, al solo vederla. Colui che accorreva
impugnando un fucile e sparava, non riusciva neanche a scalfirla.
Erano così potenti le sue qualità ammaliatrici, da riuscire a
deviare i proiettili che avrebbero potuto colpirla.
La civetta era ritenuta un uccello
lugubre, foriero di cattivi presagi. Il suo canto stridulo, nel buio
della notte, era ritenuto di malaùrija
e faceva rabbrividire le persone. Dopo il suo canto, se di lì a poco
si verificava qualche decesso in paese, si raccontava che la civetta
l’aveva preannunciato.
«Chi puózzi tòrce la vócca! Avìssa
cripà pi ‘n ciéli!», «Che ti si possa storcere il becco! Che tu
possa morire per il cielo!», urlavano le donne quando udivano la
civetta cantare in volo.
Janare,
lupi mannari, folletti e
Travóne
Li ghjanàri e li lupi pumpinàri, janare
e lupi mannari, venivano alla luce come gli altri neonati, ma con
una differenza: essi nascevano la notte di Natale e questo li
avrebbe segnati per tutta la vita.
Le janare,
sinonimo di streghe ma, al contrario di queste, presenti
nell’immaginario collettivo come giovani donne, belle e ammalianti,
erano temute assai dalla gente, che metteva in atto precauzioni e
antidoti, perché inefficaci o innocue risultassero le loro
fastidiose e ricorrenti incursioni notturne.
Molte precauzioni e antidoti, come
il sale cosparso sul pavimento, sui balconi, sui davanzali delle
finestre, erano posti in atto per evitare che di notte le janare
penetrassero nude nelle case, attraverso le fessure di porte o
finestre, per ammaliare, molestare e fare dispetti alle persone in
preda al sonno. Le scope di saggina e i falcetti appesi all’esterno,
all’ingresso delle case, o all’interno delle porte, erano un
diversivo, perché esse si distraessero nella conta al buio di
dentini dei falcetti e fili delle scope, così che fattasi l’alba
erano costrette a rientrare alle proprie dimore.
Le janare
avevano un nemico nel sale da cucina e se una donna faceva l’impasto
per il pane senza sale, o preparava pietanze insipide, era
sospettata di essere una di loro e ciò alimentava il circuito del
sospetto, del pregiudizio e della maldicenza paesana.
Di sabato, lo scongiuro ricorrente
tra la gente era: «Ogg’è
ssàbbutu, salut’a nnuji!», «Oggi è sabato, salute a noi!». Questo
perché il sabato era il giorno del sabba, vale a dire il gran raduno
delle janare
con il diavolo, sotto il noce di San Martino Valle Caudina, o sotto
quello più universalmente noto di Benevento. Esse accorrevano in
volo sulle scope di saggina dai vari paesi dell’Irpinia, del Sannio
e pare anche dall’Abruzzo e dal Molise.
A Montecalvo si raccontava di
convegni notturni di janare
locali, tenuti sotto gli alberi di pero, isolati nelle radure o nei
terreni incolti destinati al pascolo delle greggi.
Se qualche mattino lu ualànu, il capo dei dipendenti
del massaro, riscontrava nella stalla che delle cavalle avevano i
peli della coda e della criniera intrecciati fortemente a piccole
trecce, subito si diffondeva la notizia per le masserie che quella
era opera delle janare.
E la cosa impressionava la gente a tal punto che, oltre a
raccontarla in modo pittoresco, il ricordo dell’accaduto permaneva
per anni, alimentato e accresciuto dalla fantasia degli anziani
dialettofoni.
I lupi mannari o licantropi si
attivavano ogni notte di plenilunio e scorrazzavano, con un branco
di cani appresso, tra abbaiamenti e ululati, per le vie del paese e
delle contrade rurali, terrorizzando le persone che si erano fatte
sorprendere fuori casa dalla notte.
I malcapitati, per non essere
dilaniati, dovevano arrampicarsi sugli alberi o rifugiarsi su
ballatoi o pianerottoli, e l’importante era che a questi si
accedesse attraverso molti gradini. Il lupo mannaro, infatti, più di
tre gradini non era in grado di salire.
L’antidoto consisteva in un chiodo
di ferro, fissato alla punta di una lunga canna o pertica, con cui
si cercava di pungere dall’alto il lupo mannaro, rimanendo al sicuro
su un balcone o affacciati ad una finestra. Se l’operazione
riusciva, e dalla ferita inferta fuoriuscivano tre gocce di sangue,
il licantropo ritornava in sé, cacciava via i cani e faceva rientro
alla propria dimora.
Come si può notare, anche in questo
caso ritorna la valenza magica del tre.
I folletti, li scazzamariéddri,
piccoli esseri di puro spirito, oltre che nella fantasia popolare
albergavano nelle case della gente, che li descriveva vestiti con
abiti fiabeschi di variopinti colori.
Estrosi, bizzosi, dispettosi, ma
non malvagi, talvolta riuscivano ad essere simpatici e benefici
collaborando, di nascosto, ai faticosi lavori che si facevano in
casa o nelle botteghe degli artigiani.
Si favoleggiava pure sullo scazzamariéddru cacadinàri, così
generoso da far rinvenire, al fortunato e ignaro padrone di casa,
degli zecchini d’oro nella cenere del suo focolare.
Quando d’estate si verificavano
tempeste di vento, con molta acqua e grandine, si sosteneva che a
provocarle era lu Travóne,
una possente nuvola nera che ascendeva nel cielo avvitandosi con
lingue di fuoco nella massa di nubi. A temporale finito, un prete si
ritirava attraverso i campi, bagnato fradicio e inzaccherato. La
gente giurava che era lui il Travóne.
Nota
Gli scongiuri e
le maledizioni sono dei concentrati di significati arcaici, storia
etnica, incrostazioni e contaminazioni culturali. Ognuno di essi può
essere oggetto di analisi semantica e filologica, con spiccata
connotazione antropologica. Ad esempio, “Tèh, maramèu!” è con ogni
probabilità l’attacco di un canto funebre abruzzese o molisano, in
onore del marito morto. Questo verso, migrato in Irpinia e nel
napoletano, ha perso il suo significato originale e le donne lo
adoperavano come scongiuro o esclamazione liberatoria, contro
ingerenze, o prevaricazioni altrui.
A
li ghjanàri, lupi pumpinàri
e scazzamariéddri
ho dedicato in questi anni quattro poemi in versi
tuttora inediti.
Diversi rimedi,
filastrocche e maledizioni sono ripresi dal mio libro Lo zio
d’America, editore Menna, Avellino 1988.
Gli
informatori, consultati per questo saggio breve, sono tutti
contadini: mia madre, Mariantonia Del Vecchio, 1922-2011; Angelo
Schiavone, Angilìllu lu
Zìnguru, trappitàru, 1914-2010, per la filastrocca di maledizioni; i
coniugi Angela Cipriano, classe 1944, e Francesco Avolivola,
1942-2011, per il malocchio.
(Questo testo, pubblicato dal
Corriere – Quotidiano
dell’Irpinia,
è fruibile nel sito
www.angelosiciliano.com).
Zell, 10 luglio
2005
Angelo Siciliano
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