Il due agosto 2006 è un’altra data importante per
l’archeologia della contrada in cui nacqui e ancora vi abitano i
miei, la Costa della Mènola a Montecalvo Irpino. Gli strati del
terreno vegetale sovrappostisi nei millenni, sono stati scompaginati
negli ultimi secoli, ma soprattutto verso la fine del Novecento con
l’uso di ruspe e scavatori, per livellare il terreno, tracciare vie
interpoderali per il passaggio dei mezzi agricoli e per l’impianto
di noceti e uliveti. Tutte queste attività hanno stravolto il
territorio e anche se, in apparenza, paiono aver dato nuova linfa ad
un’agricoltura ormai abbandonata ed esangue, in realtà ne prolungano
semplicemente l’agonia.
Ciò che si era
conservato per millenni, più o meno intatto negli strati del terreno
o
nelle murrécine,
mucchi di sassi artificiali, perché l’attività antropica sui fianchi
della collina riguardava principalmente la pastorizia e
l’agricoltura, i cui lavori erano svolti con l’ausilio delle braccia
e gli strumenti adoperati erano le zappe, che al massimo affondavano
nel terreno per una trentina di centimetri, ora lo si può trovare
tra le zolle.
Finché verrà lavorata
la terra in questa contrada, il segreto per rinvenire nuovi reperti
di superficie, decontestualizzati, consiste nell’attendere che
passino i temporali estivi. L’acqua piovuta dal cielo dilava le
zolle ed ecco che dopo qualche giorno, sul terreno asciutto, ci si
può dedicare alla ricerca di eventuali reperti.
Se una volta d’estate,
con un secchio in mano, ci si recava tra i campi per raccogliere
frutta o lumache, adesso, quando mi capita, vado alla ricerca di
reperti che all’apparenza paiono sassi o cocci insignificanti.
Ultimata la ricerca zolla per zolla, torno a casa per il lavaggio di
quanto raccolto. E qui si hanno le prime sorprese, da rimanere a
volte stupefatti. Lavati e disincrostati, i reperti assumono il loro
aspetto originale e definitivo. Possono così essere ammirati e
successivamente studiati, per cercare di dare ad essi una possibile
o probabile collocazione temporale. Ma la cosa, come si può
immaginare, non è sempre agevole.
Oltre a qualche chilo
di reperti (in totale sono diverse decine di chili i reperti
rinvenuti finora), tra manufatti in pietra e in cotto da riuso, come
mi piace definirli, perché ricavati scheggiando frammenti di coppi o
mattonelle, mi sono imbattuto in un’altra scoria di fusione e in
un’altra moneta romana. Se questa moneta è certamente il reperto più
vicino a noi, all’incirca del II sec. d. C., gli altri reperti sono
più antichi: manufatti in cotto circolari o scheggiati a forma di
cuore, foglia, rombo o triangolo, e manufatti in pietra quali
amigdale, scalpelli o asce a mano, raschiatoi, pestelli, punteruoli,
un’altra ascia da taglio e manufatti enigmatici a forma di rombo. I
manufatti in cotto a forma circolare, conosciuti come token, sono
dei veri e propri gettoni della preistoria. Se quelli di Mozia, in
Sicilia, sono del IV sec. a. C., quelli dell’isola di Vivara, nel
golfo partenopeo, sono d’epoca micenea, XV sec. a. C. Poi vi sono
quelli della Mesopotamia del terzo millennio a.C.
Un nuovo rompicapo per
me, non avendoli riscontrati finora in alcuna vetrina di museo e in
nessuna pubblicazione, sono i manufatti in cotto da riuso a forma di
cuore, foglia, rombo o triangolo. Potevano essere degli amuleti o
dei giocattoli. O forse non erano adoperati anch’essi come oggetti
d’intermediazione negli scambi commerciali, al pari dei token?
L’interrogativo permane.
La scoria di fusione, molto ferrosa, è
sicuramente dell’età del Bronzo, 2000 anni a. C. circa.
(Questo articolo, pubblicato il 20-9-2006 sul
“CORRIERE - Quotidiano dell’Irpinia”, è stato aggiornato ed è
fruibile nel sito www.angelosiciliano.com).
Zell,
7 aprile 2008 Angelo Siciliano