QUATTORDICI MOSTRE NEL 2007 IN TRENTINO

  
 

Alcune, concepite come veri e propri eventi culturali,

si sono già concluse, altre proseguono le loro esposizioni:

“Ori dei cavalieri delle steppe” e “Nicolò Rasmo 1909-1986” al Castello del

Buonconsiglio, “Nane Zavagno - Costruzioni prometeiche” al Castello di Pergine,

“La scimmia nuda” al Museo di Scienze Naturali, “L’antologica di pittura di Marco

Berlanda” al Foyer del Centro Servizi Culturali Santa Chiara, “Icone sacre su vetro

dalla Romania” e “Tullio Garbari-Lo sguardo severo della bontà” al Museo

Diocesano Tridentino, “Ghiaccio e velluto” mostra fotografica di Elena Munerati a

Palazzo Trentini; sei mostre al MART: “Franz von Stuck”, “Il Modo Italiano”,

“Markus Vallazza”, “Mitomacchina”, “Lyonel Feininger”, “Maurice Denis”

 

 

Ori dei cavalieri delle steppe

Collezioni dai Musei dell’Ucraina

al Castello del Buonconsiglio

 

Dopo la splendida mostra del 2006, dedicata al pittore rinascimentale Girolamo Romanino, si è inaugurata, il 31 maggio 2007, al Castello del Buonconsiglio di Trento, una mostra archeologica straordinaria Ori dei cavalieri delle steppe: Collezioni dei Musei dell’Ucraina. È un evento a cui sono state collegate recite, spettacoli musicali e conferenze in linea col contenuto della mostra. Resterà aperta sino al 4 novembre 2007 e consentirà ai visitatori di poter ammirare cose mai viste da vicino. Presenta al pubblico 400 oggetti: splendide armi cesellate in oro, gioielli raffinati, diademi, pettorali, bracciali e finimenti per cavallo da parata, servizi cerimoniali per il simposio e il banchetto. Sono prestati dai più importanti musei dell’Ucraina, repubblica nata dopo la fine dell’URSS. Se quello più spettacolare è rappresentato da una parte importante della cosiddetta “Camera d’oro” dell’Historical Tresaures Museum, importanti sono pure i reperti prestati dall’Archeological Institute, dal National Historical Museum of Ucraine di Kiev e dall’Archelogical Museum di Odessa. In Italia arrivano in buona parte per la prima volta. Riguardano popoli nomadi come gli Sciti, i Sarmati, i Goti, gli Unni, gli Avari, i Khazari, i Peceneghi e i Polovzi, che sono stati dominatori delle steppe in sequenze temporali successive.

L’arco di tempo coperto dalla mostra va dal III-II millennio a. C. al XIII sec. d. C., epoca dell’invasione dell’Orda d’oro dei Mongoli. Un tempo molto lungo, che precede la creazione del Principato Rus’ di Kiev che riuscì per primo a frenare i flussi dei nomadi.

I nomadi si spostavano nel continente eurasiatico, molto vario morfologicamente, con montagne, fiumi e pianure, lungo più di 7000 chilometri, dal Danubio al Fiume Giallo, attraverso un’immensa superficie verde, la steppa, alle cui estremità erano i territori di popoli sedentari che, per difendersi dalle loro invasioni, erigevano possenti sistemi di difesa: i limes dei Romani a occidente; la Grande Muraglia cinese della dinastia Han a oriente. La steppa favoriva la mobilità ciclica dei nomadi, dediti all’allevamento del bestiame, con le loro case mobili montate sui carri, fatte di feltro o vimini intrecciati. Il clima della steppa è di tipo continentale, con gelidi inverni e torride estati. Con l’aria tersa consente l’osservazione di branchi di cervi al pascolo, felini in agguato e rapaci pronti a predare dal cielo. Da questi animali l’arte nomadica ha tratto il suo bestiario simbolico, incrementato pure dai rapporti intrecciati con altre etnie.

Ma il nomadismo, a partire dagli scrittori e storici antichi, è stato visto sempre negativamente per la mancanza di una dimora fissa, rappresentata da un alloggio con tetto e un focolare. Eppure i popoli nomadi stupivano per la loro invincibilità, nonostante non fondassero né città né edificassero cinte murarie.

Il nomadismo è un fenomeno complesso, fatto di spostamenti periodici verso le montagne nell’approssimarsi dell’estate e verso le pianure fluviali per passarvi l’inverno.

Il simbolo stabile della mobilità nomadica è rappresentato dai tumuli funerari, ricchi di corredi, la cui concentrazione è nelle pianure fluviali. E proprio grazie ai tanti ritrovamenti archeologici, a seguito degli scavi nelle “piramidi della steppa”, le monumentali sepolture a tumulo note come “kurgan”, che hanno restituito tesori straordinari, risalenti ad oltre duemila anni fa, è stato possibile acquisire molte informazioni sui popoli nomadi.

Tra il Danubio e il Volga prima vi erano gli Sciti, poi arrivarono i Sarmati, i Goti, gli Unni, gli Avari, fino ai Mongoli dell’Orda d’Oro. Si contraevano matrimoni, si celebravano feste, si svolgevano traffici commerciali. Qui vi furono continui contatti tra la cultura greca e quella dei nomadi. Ma costoro avevano rapporti continui anche con le tribù stanziali dei villaggi della silvo-steppa, che si dedicavano all’agricoltura. Era un sistema economico integrato quello instauratosi tra queste due differenti realtà. Le popolazioni delle oasi agricole offrivano cereali, prodotti della terra, stoffe, sostanze aromatiche, spezie, vasellame, prodotti dell’artigianato, metalli preziosi, pellicce, legname, miele, pesci freschi ed essiccati. Le comunità nomadiche della steppa, oltre al latte e ai suoi derivati, offrivano lana, pellame, armi e bardature per cavalli.

I popoli nomadi praticavano l’intermediazione mercantile, controllavano le vie carovaniere, effettuavano trasporti per conto terzi, noleggiavano bestie da soma e mezzi di trasporto, conducevano e difendevano carovane, incassavano il pedaggio per il passaggio delle carovane nei loro territori. Si trattava di un equilibrio fondamentale tra nomadi e sedentari, ma quando esso si rompeva, iniziavano invasioni o migrazioni. Nei casi più gravi scoppiavano guerre, le cui conseguenze erano gravi per tutti.

Le migrazioni dei nomadi, oltre che temporanee, potevano essere definitive e ciò a causa di eventi naturali come l’esaurimento dei pascoli, l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, l’inaridimento delle terre, o tribali come i conflitti con le altre tribù, le pressioni di altri gruppi nomadici, oppure motivi bellici.

Nella steppa si sono succeduti nei secoli flussi e riflussi umani, in un continuo divenire. Periodi di incursioni si sono alternati ad altri di quiete e stabilità. I nomadi prediligevano gli spazi liberi, senza costruzioni, mura o recinti. E anche per questo non è mai esistito un loro impero né uno stato unitario scitico, sarmatico o unno. La loro forza risiedeva nei vincoli di parentela. Da questa discendeva il loro potere che li faceva organizzare in clan, tribù e confederazioni. Erodoto scrive che gli Sciti fraternizzavano bevendo vino mescolato con il proprio sangue. Avere un antenato comune, reale o presunto, cementava i rapporti tra i clan. Gli animali che decorano i loro oggetti, da quelli d’uso quotidiano alle armi, paiono immagini totemiche che fanno pensare a origini comuni che nessuno, allo stato attuale, è in grado di confermare o smentire.

Il filo conduttore della mostra di Trento si avvale di fonti scritte, archeologiche ed etnografiche dell’Ucraina, terra d’approdo di tanti popoli nomadi che hanno segnato anche la storia e la cultura dell’Europa occidentale. Allestita in nove sezioni, ha l’obiettivo di offrire una chiave di lettura differente delle civiltà dei popoli nomadi dominanti, rispetto a mostre analoghe del passato organizzate in Italia, di cui la prima fu nel 1977 a Venezia e poi ne sono seguite altre, soprattutto sugli ori degli Sciti.

La mostra si articola in nove sezioni, ospitate nei diversi ambienti del museo.

Nella prima sezione sono esposti: modellini di abitazioni in argilla, che rimandano alla vita sedentaria di agricoltori e allevatori; statuette femminili antropomorfe che fanno pensare alla dea Madre; un modello di carretto in terracotta del IV millennio a. C., che fa ipotizzare che l’invenzione della ruota sia avvenuta nelle steppe invece che nel Medio Oriente; una raccolta di armi del III-II millennio a.C. che attesta il potere dell’uomo-guerriero raggiunto poi anche nell’Europa occidentale; una statua stele. Alcuni video illustrano ai visitatori gli ambienti della steppa.

Nella seconda sezione è rappresentato l’avvento dei nomadi, grazie a una splendida tenda, la yurta, abitazione mobile in contrapposizione alla casa in argilla delle popolazioni sedentarie.

La terza sezione illustra il mito e l’arte delle steppe con splendidi oggetti a decorazioni zoomorfe, in cui si evidenziano gli influssi dell’arte greca e orientale.

Nella quarta sezione è ricostruito il kurgan, tumulo funerario a forma di piramide, riservato ai re e ai principi. È evidenziato il valore simbolico dell’abbigliamento funebre sia maschile che femminile.

La quinta sezione, dedicata alle principesse, accoglie splendidi gioielli dei maestri orafi delle steppe e capi d’abbigliamento, ad attestare il potere e il prestigio raggiunti in vita ed esibiti anche dopo la morte.

La sesta sezione riguarda i principi, quindi l’aristocrazia nomadica, con il campionario delle loro splendide armi decorate o cesellate in oro. Essi erano feroci guerrieri, abili arcieri a cavallo e capi dei popoli delle steppe.

Nella settima sezione è esposto tutto ciò che riguarda i cavalieri delle steppe e il corredo di finimenti dei loro cavalli.

L’ottava sezione presenta tanti oggetti di raffinata fattura per usi conviviali, provenienti dal mondo greco e mediterraneo. Sono il frutto degli scambi tra Oriente e Occidente. In un certo senso smentiscono lo stereotipo dei nomadi intesi come feroci guerrieri inclini solo alla guerra e a una vita selvaggia.

Nella nona sezione è rappresentato il mondo sacro dei nomadi. Per i cavalieri delle steppe erano importanti le credenze religiose e le pratiche cultuali. Si facevano guidare dall’arte degli sciamani. I manufatti esposti hanno valenze simboliche di difficile interpretazione. Papai era una divinità scitica.

La mostra è curata da Gianluca Bonora, specialista in archeologia dell’Asia, e dal direttore del castello del Buonconsiglio Franco Marzatico. Si snoda su 1400 metri quadrati di 14 sale, stupisce i visitatori e ne stimola la fantasia. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Scheda del catalogo

Il catalogo, con immagini a colori e in bianco e nero, riporta i testi di M. T. Guaitoli, M. Cattani, B. Genito, F. Facchini, M. G. Belcastro, A. G. Korvin-PiotrovsKiji, S. Hansen, J. Ja Rassamakin, E. Valzolgher, E. Kaiser, A. Pedrotti, M. Cattani, F. Marzatico, W. David, P. Gleirscher, M. Szabó, G. L. Bonora, B. Teržan, A. Hellmuth, N. Manassero, F. Bosi, Y. Boltrik, G. Assorati, G. Cairo, B. Girotti, A. Iliceto, M. Vidale, L. Barone, P. de Vingo, D. Kozak, E. Possenti, I. Baldini Lippolis, A. Motsia, A. Panaino. È stampato da Silvana Editoriale e il prezzo è di € 30.

 

Mostra in ricordo di Nicolò Rasmo (1909-1986)

Al Castello del Buonconsiglio

 

Del trentino Nicolò Rasmo, morto il 5 dicembre 1986 a Bolzano, all’età di 77 anni, ricorreva nel 2006 il ventesimo della scomparsa. Fu prima ispettore dal 1939 e poi soprintendente ai Monumenti e alle Gallerie di Trento e Bolzano dal 1960 al 1971. Tutelò con tenacia il territorio e le sue opere. Oltre a dirigere il Museo del Buonconsiglio, dal 1940 al 1981 fu direttore del Museo Civico di Bolzano. Ebbe la libera docenza per storia dell’arte presso la Statale di Milano.

Figlio dell’ingegnere Guido, fu nipote del pittore Camillo Rasmo (1876-1965), fratello di suo padre, che eseguì molti suoi ritratti.

Al suo attivo restano oltre 500 pubblicazioni, incentrate per lo più sull’arte del Trentino e dell’Alto Adige, dal Medioevo all’Ottocento.

Il 9 marzo 2007, s’inaugurava una mostra in suo onore, Per l’arte. Mostra in ricordo di Nicolò Rasmo (1909-1986), allestita in due sedi: presso la Galleria Civica di Bolzano e al Castello del Buonconsiglio di Trento.

La mostra di Trento comprendeva opere, documenti ed oggetti collegati alla sua attività di tutela dell’arte del Trentino che svolse con grande passione.

Di Nicolò Rasmo ho un ricordo personale della sera in cui presentò il suo volume sulla storia dell’arte del Trentino, presso l’allora Centro “Fratelli Bronzetti” di Trento, in Via Belenzani. A conclusione della serata gli fu obiettato, da parte di un signore del pubblico, come mai non avesse inserito l’arte contemporanea nel suo ponderoso volume. Lui rispose che il motivo di tale esclusione risiedeva nel fatto che le espressioni dell’arte moderna non hanno riscontro in natura. Rimasi stupito da quella risposta. Ma la mia impressione fu che non fossi l’unico a provare una tale sensazione. Tanto più che in quegli anni vi era molto fervore artistico a Trento, per via dell’arte astratta e quella informale che avevano tanti propugnatori. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Nane Zavagno- Costruzioni prometeiche

A Castel Pergine

 

Il 21 aprile 2007 si inaugurava nell’ambiente, sempre bello e suggestivo del Castello di Pergine Valsugana (TN), situato in cima a un colle, gestito come albergo e ristorante da Theo Scheider e Verena Neff, la 15^ mostra estiva di scultura, dedicata all’opera di Nane Zavagno, artista friulano nato nel 1932 a San Giorgio della Richinvelda, che vive nella sua casa-atelier di Valeriano, in provincia di Pordenone. La mostra rimarrà aperta sino al 5 novembre 2007.

È dal 1991, con le sole eccezioni del 1992 e 1993, che in ogni primavera questo castello, grazie alla passione dei suoi gestori-mecenati e alla sponsorizzazione della Cassa Rurale di Pergine, si arreda temporaneamente di nuove opere. Opere di artisti differenti che si muovono nell’ambito dell’arte astratta. E ogni volta esso cambia pelle. Ma anche la natura fa la sua parte. Rinverdiscono i boschi, i campi coltivati e i prati del vario e dolce paesaggio perginese, racchiuso da un ampio e straordinario anfiteatro di monti, prediletto dai pittori della prima metà del Novecento, i trentini Tullio Garbari e Gino Pancheri.

Gli uccelli, che qui trovano un habitat ideale, si fanno osservare e ammirare per il loro canto: pettirossi, codirossi, merli, fringuelli, capinere, cince, tordi bottacci e picchio rosso. Se si è fortunati si possono osservare rapaci come la poiana, il falco di palude, il gheppio e il nibbio bruno che perlustrano il territorio.

Salendo verso il castello, dopo aver parcheggiato l’auto alla base del dosso, si possono ammirare tappeti di pervinca fiorita sotto gli aceri, i carpini, le roverelle, i frassini, i faggi e qualche tiglio. Giunti che si è alla meta, si resta inebriati dall’odore sobrio del glicine fiorito e da quello più penetrante dei lillà. Ma la fatica per l’ascesa, che questa natura rigogliosa e la vista stupefacente sulle valli circostanti già di per sé meriterebbero, è ripagata dall’esposizione di sculture ambientate negli spazi attorno al castello e nel suo ampio giardino interno cinto da mura. Le sensazioni si accavallano. La digitale può fissare le strutture del castello, le sculture, i paesaggi. Ma gli odori, gli stati d’animo e i sentimenti li si può solo vivere a livello personale. O al massimo ricordarli per raccontarli o ripassarseli nella memoria. Ma fotografarli no.

Le sculture di Nane Zavagno sono geometrie solide e irregolari. Alcune di esse sono in pietra o in lamiera. Altre hanno la caratteristica della trasparenza e della levità. Eppure sono spesso dei poliedri monumentali. Ma per il fatto di essere realizzate con una rete metallica zincata a triplo strato, e di vari colori, paiono grandi otri pieni d’aria. Filtrano la luce e lasciano trasparire il cielo e le nuvole. Sono opere che si armonizzano con la realtà in cui sono collocate, perché di scarso impatto ambientale. Giusto per la loro trasparenza.

Per Nane Zavagno – che è anche pittore e realizza grandi quadri astratti scuri – fare scultura è un mestiere e ogni pretesto è un buon motivo per fare arte. Ma a monte vi è il suo talento e, poiché è un artista del nostro tempo, adopera i materiali offerti dalle moderne tecnologie industriali.

Un’altra caratteristica delle sculture di Zavagno è che nascono – e così sono esposte – quasi sempre a coppia. Giocano sui pieni e sui vuoti e danno l’idea di maschio e femmina. Franco Batacchi, nel presentare la mostra, parlava di amplesso. Per lui, quella di Zavagno, è dunque anche l’arte sull’amplesso. Ha anche puntualizzato il significato del termine “prometeico”. Le sculture di Zavagno sono “Costruzioni prometeiche”, perché si rifanno al mito di Prometeo, amante delle novità, che osò sfidare Giove. Costui lo condannò a essere legato a una roccia del Caucaso, dove ogni giorno un avvoltoio gli divorava il fegato, che di notte ricresceva e così il giorno seguente si ripeteva il supplizio. Scrive Batacchi in catalogo che è “'nuovo Prometeo' l’artista che non teme di misurarsi con l’utopia, affronta la sfida del confronto con la resistenza della materia e invade lo spazio abitandolo con nuove forme, inusuali per la natura”. Se non sono molti gli scultori degni di una tale qualifica, Zavagno sicuramente la merita, perché ha l’ardire di collocare le sue sculture, che non sono decorative, ma hanno le caratteristiche della neomonumentalità ambientale, nel paesaggio, sui prati, tra gli alberi e nelle città, giocando abilmente sui rapporti di pieno-vuoto-massa.

All’inaugurazione della mostra di quest’anno, davanti al numeroso pubblico intervenuto, si esibiva in modo mirabile il Trio Schiltknecht - Ehrismann che suonava strumenti inusuali: salterio, percussione, corno alpino e tromba. Seguiva un gradevole rinfresco con un buffet apparecchiato di specialità locali.

A Castel Pergine, quindi, nel perpetuo rinnovamento, l’incanto dell’arte si ripete ogni primavera. Forse è un luogo unico in Italia, per costanza e qualità delle esposizioni organizzate. E la gentilezza di Theo Scheider e Verena Neff. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Scheda del catalogo

Il catalogo, di 104 pagine, curato da Franco Batacchi, Theo Scheider e Verena Neff, illustrato con immagini a colori e in bianco e nero con foto di Theo Scheider, contiene i testi del sindaco di Pergine, del Vicepresidente e Assessore alla Cultura della Provincia Autonoma di Trento Margherita Cogo e del critico Franco Batacchi. È stampato da Publistampa Arti grafiche, Pergine Valsugana nel 2007. Il prezzo è di € 20.

 

 

LA SCIMMIA NUDA

STORIA NATURALE DELL’UMANITÀ

Scienza e arte in una mostra interattiva al Museo Tridentino di Scienze Naturali

 

La mostra, inaugurata il 7 aprile 2007, resterà aperta sino al 6 gennaio 2008. Allestita con oggetti eterogenei, in collaborazione con il Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino e il Museo Friulano di Storia Naturale di Udine, presso i quali sarà trasferita nel 2008, essa fa un accostamento tra la cultura umanistica, arte compresa, e la cultura scientifica rivolgendosi a vari tipi di utenti: adulti e bambini, studenti e famiglie, cittadini residenti e turisti. La mostra è molto curata nell’allestimento, con scenografie forti e comunicative, con strumenti multimediali per approcci interattivi. Il suo manifesto è un puzzle surreale alquanto intrigante: alcuni particolari ritagliati di un volto di scimpanzé si sovrappongono a un volto umano maschile, per ricordarci che uomini e scimmie sono molto simili.

Charles Darwin (1809-1882), da evoluzionista, fu il primo a contrapporsi alla teoria fissista e creazionista, che ha origine dalla bibbia, e diede il via a una rivoluzione del pensiero umano, fatta poi propria dal mondo scientifico. Lui ipotizzò che l’uomo ha un antenato scimmia.

Desmond Morris nel 1994 scriveva che noi “siamo animali e anche se ci piacerebbe pensare di essere degli angeli caduti dal cielo, in realtà siamo scimmie in posizione eretta”.

Ma l’uomo non ha solo somiglianze anatomiche con le scimmie. Infatti, per quanto concerne il DNA, è stato appurato che più del 98% del patrimonio genetico degli esseri umani coincide con quello degli scimpanzé. E poi tante altre somiglianze riguardano la struttura sociale, il rapporto di coppia, la sessualità, le cure parentali, la capacità comunicativa, l’uso dell’intelligenza nel risolvere i problemi pratici, la capacità di prendere decisioni dopo aver valutato una determinata questione, l’uso di strumenti, seppure semplici per compiere determinate operazioni, e la capacità di realizzare opere pittoriche. Singolare è il fatto che nella mostra sono presenti delle opere pittoriche, dipinte a tempera su carta nel 1957 dallo scimpanzé Congo, sotto la sorveglianza di Desmond Morris.

Alcuni ricercatori hanno scoperto che le scimmie antropomorfe, e in particolare gli scimpanzé, hanno una propria cultura, seppure primitiva, e notato nei loro comportamenti alcuni fondamenti della morale.

Questa mostra, con un percorso articolato in tante sezioni, e una straordinaria varietà di oggetti esposti, come manufatti, reperti antropologici e archeologici, strumentazioni storiche, video, foto, exhibit interattivi, opere e installazioni d’arte contemporanea, getta un ponte tra diverse discipline, quali l’antropologia, l’archeologia, la paleontologia, la zoologia, la genetica e l’arte. Sono messi sotto osservazione “l’animale uomo”, nel suo percorso evolutivo, e l’intricato cespuglio umano da cui si è affermato con successo l’homo sapiens. E così si scopre che non vi sono le razze umane, ma esiste l’uomo nella sua unicità, nonostante il differente colore della pelle, la lingua parlata e gli usi e costumi diversi.

La mostra chiude il suo percorso con una nota ottimistica. L’uomo si è evoluto e ha costruito una società articolata e complessa colonizzando tutti i continenti. Nel tempo ha saputo modificare l’ambiente adattandolo alle proprie esigenze, ma esiste una responsabilità complessiva, a livello di nazioni e organismi internazionali, perché esso non sia alterato oltre il limite sostenibile, pena la sua distruzione. L’inquinamento diffuso ormai a livello planetario, l’effetto serra, il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici, al di là dei cicli cui la terra è soggetta da sempre, sono attribuiti principalmente all’attività antropica. Solo orientando le sue scelte verso l’uso di fonti energetiche alternative e rinnovabili, quindi non di origine fossile, e prevenendo i dissesti idrogeologici, la distruzione delle foreste tropicali, l’inquinamento dell’aria, del suolo e delle acque, gli sprechi diffusi delle risorse e rispettando e difendendo la natura, l’uomo potrà evitare l’estinzione di tante specie viventi e la distruzione del loro habitat, e tramandare ancora la propria specie e continuare ad evolversi.

 

Attività collegate alla mostra “La scimmia nuda”

Oltre alle visite guidate alla mostra “La scimmia nuda”, sono organizzate diverse altre attività ad essa collegate. Nella sede del Museo di Scienze Naturali di via Calepina sono offerti momenti ludici con incontri di danza, spettacoli teatrali, conferenze, drink e performance per scoprire le tecniche di seduzione degli animali.

Al Museo dell’Aeronautica Gianni Caproni sono previsti laboratori di origami, esperimenti e giochi scientifici nella meravigliosa cornice degli aerei d’epoca.

Al Giardino Botanico Alpino, alle Viote del Bondone, si tengono visite guidate alla scoperta dei fiori e delle erbe medicinali provenienti dalle montagne di tutto il mondo e la mostra fotografica “Trasformazioni” dedicata alle geometrie e ai colori della natura.

Alla Terrazza delle Stelle torna Musica delle Stelle, il piacevole appuntamento con la musica e le stelle sul Monte Bondone: suoni e melodie classiche, incantevoli incontri nella fresca atmosfera alpina, una notte dedicata alla contemplazione delle stelle e dell’Universo, in collaborazione con il Conservatorio “Bonporti” di Trento, osservazioni astronomiche notturne del cielo incontaminato del Monte Bondone, approfondimenti con l’astronomo, semplici e divertenti esperimenti di astronomia.

Al Museo delle Palafitte del Lago di Ledro proseguono le proposte di archeologia imitativa di Palafittando, tante occasioni per vivere una giornata da palafitticoli imparando diverse attività manuali legate a temi archeologici, e un’interessante mostra per conoscere oggetti, costumi, usanze e rituali sciamanici nel mondo d’oggi e nella Ledro preistorica. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Scheda del catalogo

Il catalogo, di 190 pagine, curato da Claudia Lauro, Giuseppe Muscio e Paola Visentini, illustrato con immagini a colori e in bianco e nero, contiene i testi di ben 36 autori italiani e stranieri. È stampato da Graphic Linea di Tavagnacco, Udine, nel luglio 2007.

 

La mostra di pittura di Marco Berlanda

Al Foyer del Centro Servizi Culturali Santa Chiara

 

Organizzata dalla Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, si è tenuta presso il Foyer del Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento, dal 24 aprile al 6 maggio 2007, una mostra antologica di pittura dell’artista trentino Marco Berlanda. Proprio perché si è trattato di un’antologica, le numerose opere, di piccole e grandi dimensioni, rappresentavano i momenti salienti della sua produzione artistica, che è cominciata in età matura, nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento. Prima si dedicava alla fotografia. Poi è esplosa inarrestabile la sua vena creativa a rimorchio del proprio istinto, con una vitalità espressiva che è raro riscontrare in altri artisti. Ed è un’energia straordinaria e dirompente la sua, percepibile nelle sue figure e nei suoi scorci urbani, sempre a forti cromie, carichi di un espressionismo emozionale e spirituale, accentuato dall’incisività del segno. Segno che è predominante nelle sue opere a puntasecca.

La mostra di Berlanda è accostabile, seppure con qualche differenza, a un’altra bella mostra, Sacre trasparenze, che si è tenuta fino a gennaio 2007 al Museo Diocesano Tridentino, che esponeva icone sacre popolari rumene della Transilvania dipinte su vetro, raffiguranti scene e soggetti sacri. I punti comuni principali sono dovuti al fatto che si tratta di opere semplici, bidimensionali, a forti e brillanti cromie con i personaggi presentati sempre in posizione frontale e con gli occhi puntati verso lo spettatore. La differenza sostanziale è che Berlanda è un artista di oggi, profondamente laico, anche se ha trattato talvolta delle tematiche sacre. Non usa però come supporto il vetro, mentre le opere esposte in Sacre trasparenze, sono tutte su vetro, riferibili alla tradizione dell’iconografia ortodossa, e tendono a un’espressività ieratica finalizzata alla devozione religiosa popolare.

Molti ritratti di Berlanda fanno pensare al lituano, trapiantato a Parigi, Chaim Soutine, anche lui pittore d’istinto, che sapeva realizzare una sintesi tra forte cromatismo e impulso violento dell’ispirazione. Ma l’arte di Berlanda, che privilegia i sentimenti elementari, semplici e forti, e le sue figure hanno un che di antigrazioso, si inserisce a pieno titolo nel panorama degli artisti naïfs, quelli veri e non di maniera, il cui caposcuola fu il francese Rousseau il Doganiere, all’inizio del Novecento. Ancora in Francia acquisì notorietà Utrillo e dopo che gli studi del Blaue Reiter e di Kandinskij scoprirono l’importanza dell’arte naïve e i suoi presupposti onirici, sorsero gruppi di artisti naïfs in tutti i paesi europei, al punto da far diventare questo tipo di arte una moda. I finti naïfs inflazionarono il mercato italiano negli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Vale la pena ricordare i naïfs italiani più importanti come Metelli, Rosina, Ligabue, Covili, Ghizzardi e Nerone. E non va dimenticato il grande impegno che profuse Cesare Zavattini nelle tante edizioni del Premio Arti Näives di Luzzara, a cui partecipò anche Marco Berlanda, ottenendo diversi premi acquisti negli anni e la medaglia d’oro, come migliore naïf dell’anno, nel 1996. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

 

Sacre trasparenze

Una mostra di icone sacre su vetro dalla Romania al Museo Diocesano Tridentino

 

Da novembre 2006 a gennaio 2007, al Museo Diocesano Tridentino di Trento, si è tenuta una mostra molto particolare e interessante di opere provenienti dalla Romania. Erano icone sacre popolari dipinte su vetro, raffiguranti scene e soggetti sacri, molte delle quali ben si intonavano al periodo delle feste natalizie. Vari erano i titoli delle opere esposte e molti aventi a che fare con le sacre scritture: la Santissima Trinità, La nascita di Maria, L’Annunciazione, La Natività, La circoncisione, La presentazione di Gesù, L’ingresso di Gesù a Gerusalemme, La crocefissione di Gesù, Costantino ed Elena e la Crocefissione, Madonna addolorata, La Resurrezione di Gesù, L’ascenzione di Gesù, La discesa dello Spirito Santo, La tavola del paradiso, Gesù benedicente, Madonna col Bambino, San Giorgio che lotta con il drago, San Nicola grande archiereo, L’incoronazione della Vergine, Gesù benedicente, L’Arcangelo Michele, Il Battesimo di Gesù, Sant’Elia il Profeta che si alza in cielo, Arcangeli Michele e Gabriele, San Nicola e San Basilio, San Tommaso ed il battesimo di Gesù, L’ultima cena, Gesù con la vite, San Basilio e San Haralambie, Adamo ed Eva, Gesù con la vite e Madonna Addolorata.

Si tratta di opere semplici, bidimensionali, a forti e brillanti cromie con i personaggi presentati sempre in posizione frontale, con gli occhi puntati verso lo spettatore. La loro produzione si è affermata nel XVIII sec., anche se l’origine si può far risalire al IV sec. d. C. Non hanno la ieraticità e la complessità delle icone su tavola, che erano prodotte di regola nei centri monastici, ma seducono l’occhio dell’osservatore per via della semplicità, dovuta al fatto che la loro produzione è di tipo familiare, realizzata tra le mura domestiche e che si tramandava da una generazione all’altra, quasi che si trattasse di un’attività artigianale. Le origini del pittore di icone su vetro erano sempre contadine e, durante l’anno, nei mesi caldi si lavorava nei campi, mentre nei mesi invernali ci si dedicava alla pittura. Le opere testimoniano la concezione della fede presso le comunità rurali.

La mostra era distinta in tre sezioni. Nella prima era ricostruita la storia della produzione di icone su vetro della Transilvania, in particolare del villaggio di Nicula, nella regione di Cluj, dove il fenomeno prese avvio dalla lacrimazione di un’icona su legno, raffigurante l’Hodighitria, esposta in una chiesetta locale. Tra i fedeli, che arrivavano in pellegrinaggio, vi furono dei pittori austriaci su vetro da Sandl, che insegnarono agli abitanti di Sicula questa tecnica artistica. Nel XVIII sec. il vetro era prodotto a mano, le lastre si presentavano ondulate e davano una particolare brillantezza, che sparì nel secolo successivo con la produzione di vetro industriale. I colori hanno tonalità intense e vi era l’uso della foglia d’oro. Le icone più antiche di Nicula sono di piccolo formato. Altri centri di produzione di icone su vetro, talvolta di grande formato, della Transilvenia furono Iernu Ţeni, col suo maestro Popa Sandu, Şcheii Braşovului, Tara Oltului e Fagărăş

Nella seconda sezione era illustrato l’impiego delle icone su vetro in ambito pubblico e in quello privato. L’icona ortodossa consente il contatto con la divinità. Il fedele comunica col sacro sia durante il rito liturgico che nella sfera più strettamente privata. Le icone su vetro sono anche nelle chiese ortodosse, ma restano meno importanti di quelle su tavola. Nella sfera privata, invece, le icone su vetro benedette delimitano un luogo di devozione, una sorta di altare domestico presso cui si prega.

Nella terza sezione erano illustrati i temi più ricorrenti nella produzione di icone su vetro. L’iconografia ortodossa bizantina viene reinterpretata e tradotta in linguaggio semplice, accessibile ai suoi umili destinatari che sono i fedeli. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Scheda del catalogo

Il catalogo, di 76 pagine, con i testi dei sindaci Alberto Pacher di Trento e Petru Filip di Oradea, del direttore del Museo Diocesano di Trento Iginio Rogger, del direttore del Museo Ţării Crişurilor di Oradea Aurel Chiriac e della curatrice della mostra Domenica Primerano, contiene 58 immagini a colori e 2 in bianco e nero. È stampato da Osiride di Rovereto nel 2006.

 

 

 

Tullio Garbari – Lo sguardo severo della bontà

Un’ampia retrospettiva con le piccole opere dell’artista perginese

al Museo Diocesano Tridentino

 

Dal 29 giugno al 4 novembre 2007, nel Museo Diocesano Tridentino di Trento, è ricordato con un’ampia retrospettiva, curata da Domenica Primerano e Riccarda Turrina, l’artista Tullio Garbari (Pergine (TN) 1892 – Parigi 1931). Si tratta di una vasta produzione di dipinti e disegni in piccolo formato, talvolta minuscolo, conservati dagli eredi o che i collezionisti trentini hanno acquisito negli anni.

Quasi commovente poter osservare in mostra gli strumenti di lavoro di Garbari: il cavalletto, i pennelli, la tavolozza e i tubetti dei colori che Gino Severini spedì da Parigi ai familiari di Garbari in Italia dopo la sua morte. Lui che condivise l’ultimo periodo della vita di Garbari e con grande sofferenza partecipò a quella morte prematura. Una vera tragedia nel pieno della maturità creativa.

Rosetta Bracchetti Gadler (1912-1995), insegnante e pittrice, allieva di Gino Pancheri, cui Tullio Garbari aveva scritto una presentazione nel catalogo della sua prima mostra personale, mi fece conoscere negli anni Settanta del Novecento l’arte di Garbari. Me ne parlò come cultore dell’arte antica, in particolare la pittura pompeiana. Un suo quadro era riportato in Pittura italiana contemporanea, curato da Renzo Modesti e edito da Antonio Vallardi, il primo libro d’arte che acquistai nel 1968, risparmiando sul consumo di sigarette, quando ancora fumavo ed ero studente universitario a Napoli. Quel dipinto, La famiglia, in stile ellenistico-pompeiano, era sfuggito alla mia attenzione, ma da allora mi appassionai al modo personale di Garbari di esprimere in arte il mondo che lo circondava e non solo. Mi attraeva il modo semplice e piatto di rappresentarlo, con le sue figure robuste e l’alone di mistero e spiritualità che mi pareva non lontano da certe suggestioni che avevo provato, da ragazzo meridionale, davanti ad alcune ceramiche popolari dipinte e alle riproduzioni di opere dell’arte antica mediterranea, quale quella micenea.

Diverse esposizioni gli sono state dedicate in questi ultimi decenni, sia pubbliche che private. Mi confidava il signor Gualazzi, fondatore della Galleria “Il Castello”, che a Garbari, quando la galleria era sull’ingresso del Teatro sociale, aveva dedicato qualche mostra retrospettiva e lo accoglieva nelle collettive, che non si era riusciti a farlo diventare un artista affermato a livello nazionale.

La lettura de L’angelo in borghese del roveretano Carlo Belli, nella prima edizione del 1935, un saggio su Garbari in cui l’autore traccia la biografia di un angelo in borghese, dunque un messaggero divino, sceso sulla terra con un incarico speciale, m’introduceva nel vissuto dell’artista e nel contesto sociale e culturale in cui aveva operato. Quell’angelo non sarebbe stato capito dai contemporanei, perché severo di carattere e caustico di comportamento, ma in casi del genere un provvidenziale destino provvede a rinviare nel tempo l’effetto benefico del suo operato.

Affascinato dalle chiesette di campagna, Garbari era un assiduo frequentatore del santuario di Montagnaga, con tanti ex voto, e l’ingenuità di quei dipinti popolari lo influenzò al punto da preservarlo, come scrive Carlo Belli, “da pericolosi contagi «modernisti», fatue espressioni di mode intellettualistiche”.

Oltre che pittore, fu poeta e la sua profonda convinzione religiosa lo portò ad approfondire, come altri artisti e filosofi, la filosofia tomista di Jacques Maritain.

Vari sono i temi toccati da Tullio Garbari nelle sue opere: scene d’intimismo familiare (molte figure in abito scuro, dipinte durante la prima guerra mondiale, lo accostano ad Edvard Munch), volti femminili, paesaggi del perginese, scorci urbani, scene agresti, ambienti di intellettuali al caffè, recupero di certa mitologia classica per crearne una propria e tanti soggetti sacri, tratti dalla bibbia o dai vangeli, che lo fecero definire primitivista cristiano da Beniamino Joppolo. E il primitivismo è una caratteristica delle sue opere, quasi sempre bidimensionali, in cui le allegorie e le valenze simboliche fanno spesso capolino. Fu anche ossessionato dalla ricerca per la definizione del volto retico, attraverso la realizzazione di una tipologia femminile statuaria con tratti marcati, faccia ampia e collo robusto, depositaria di valori umani, morali e affettivi.

La mostra rappresenta compiutamente la produzione di Garbari. Allestita nelle sale a piano terra, prosegue idealmente il percorso al piano superiore, dove sono esposte, tra altre opere sacre, due opere dell’artista di proprietà del Museo: Il miracolo della mula e La Madonna della Pace.

Quella di Garbari, che rimase sempre legato all’ambiente familiare, fu una vita piuttosto grama con problemi di autosufficienza economica. A Milano, nel 1930, conobbe il giornalista e intellettuale Gino Garrone, e insieme frequentarono la Galleria del Milione, fondata e diretta dal critico d’arte Eduardo Persico, napoletano di formazione torinese. Fu un sodalizio culturale intenso e proficuo che, purtroppo, li accomunò anche nella scomparsa prematura. Garrone sarebbe morto pure lui a Parigi nel 1931, due mesi dopo Garbari, mentre Persico sarebbe deceduto nel 1936. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Scheda del catalogo

Il catalogo, di 410 pagine, con i testi del direttore del Museo Diocesano di Trento Iginio Rogger, Piero Viotto, Riccarda Turrina, Domenica Primerano, Elena Pontiggia, Antonio Autiero, Maria Garbari, Claudio Garbari e Paola Pettenella, è illustrato con numerose immagini a colori e in bianco e nero. È stato stampato in giugno 2007 dalla Tipolitografia TEMI di Trento.

 

 

 

Ghiaccio e velluto

La mostra fotografica di Elena Munerati a Palazzo Trentini

 

Nei locali espositivi di Palazzo Trentini a Trento, dal 24 agosto al 10 settembre 2007, è stata allestita la mostra della fotografa professionista Elena Munerati già ospitata, dal 27 dicembre 2002 al 12 gennaio 2003, presso le sale del Centro Congressi “Alla sosta dell’Imperatore” di Folgàrida, località sciistica in Val di Sole.

La mostra è stata presentata da Franco Marzatico, direttore del castello del Buonconsiglio, anche perché Elena Munerati, oltre che fotografa di reperti archeologici, nel castello vi è cresciuta assieme ai sette fratelli, giacché suo padre Antonio ne divenne il primo custode, chiamato da Giuseppe Gerola, quando questi si avviò a trasformare l’ex fortezza austriaca in complesso monumentale e museale.

Il titolo della mostra, la quale, a buon motivo, va considerata un’antologica, fa pensare al gelo e alla morbidezza, alla repulsione e al piacere di una carezza. E invece, per la varietà dei temi proposti, si può parlare di aspirazione ad andare oltre il reale e oltre il tempo, attraverso spicchi di realtà catturati e cristallizzati nelle immagini fotografiche dei reperti archeologici, di particolari ingranditi di oggetti o animali, di volti umani assorti o di figure trasognate, di scorci di metropoli, di sezioni di paesaggi montani o di laghi, in cui un albero solitario o un essere umano, entrambi minuscoli, paiono avvertire il peso della solitudine biologica o esistenziale.

Elena Munerati, come suppongo altri fotografi, legge la realtà attraverso l’obiettivo fotografico, come se fosse un terzo occhio. La sua è una lettura attenta e programmata, non casuale, per un risultato cercato e conseguito, come in certi casi, vedi le macrofoto, anche per effetto di una contaminazione con l’arte astratta.

Le foto in mostra sono in bianco e nero e di grande formato. Dimensioni alquanto spiazzanti per l’occhio del visitatore, che pure è abituato al bombardamento delle immagini, di tutti i formati e cromie, nella civiltà globalizzata delle immagini. Una sensazione che tuttavia scompare sfogliando il catalogo, perché i soggetti fotografati tornano a dimensioni consuete, vale a dire il formato delle foto di un normale album, che ciascuno può comporre, per godere intimamente delle immagini in privato. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Scheda del catalogo

Il catalogo, di 132 pagine, riporta la presentazione di Lia Camerlengo ed è illustrato con 60 foto in bianco e nero. È stato stampato in dicembre 2002 presso la Tipografia Esperia Srl, per conto di ARCA Edizioni di Trento.

 

 

SEI MOSTRE AL MART DI ROVERETO

Museo d’Arte Contemporanea di Trento e Rovereto

Il Modo Italiano

Design e avanguardie artistiche in Italia nel XX secolo

 

In Italia non esiste un museo del design, e forse a nessuno verrà l’idea e la voglia di istituirlo, perché il nostro paese, con i suoi palazzi, le sue piazze, i monumenti, le vedute urbane, i suoi panorami e paesaggi, veri e propri emblemi della nostra storia e civiltà, è un enorme museo del design a cielo aperto, di cui tutti possono godere senza pagare il biglietto. È in altri Paesi, in particolare quelli che si sono affacciati solo da alcuni decenni alla ribalta internazionale, che l’esigenza di raccogliere oggetti artistici, per esporli in un luogo delimitato, diventa un’urgenza a cui dare delle risposte documentate.

La mostra, aperta dal 3 marzo al 3 giugno 2007, curata da Giampiero Bosoni e Guy Cogeval, è arrivata al Mart dopo essere stata ospitata in Canada, dove è stata ideata e da dove è partita, al Montreal Museum of Fine Arts e al Royal Ontario Museum di Toronto. Con 380 oggetti esposti, provenienti da collezioni pubbliche e private, e aventi a che fare con la pittura, la scultura, la fotografia, la progettazione architettonica, l’artigianato raffinato dei mobili, del vetro e della ceramica, è stata lo specchio del gusto, della moda, anche con qualche punta di eccentricità, e del clima creativo che ha caratterizzato il nostro paese nel XX secolo.

Il periodo preso in esame dai curatori della mostra parte dal 1890 e la loro idea innovativa è stata quella di coinvolgere le varie discipline artistiche, che hanno consentito l’evoluzione del design in Europa. L’Italia, con la sua creatività, ha anticipato gusti e tendenze, non solo nel design, ma anche nell’arte e, nel secondo dopoguerra, è diventata un leader a livello internazionale. Poi ha saputo conquistare i mercati mondiali, grazie alla moda e al “Made in Italy”.

Nella mostra, gli oggetti esposti si combinavano e confrontavano con le varie arti, quasi a dimostrare che esistono molteplici vie dell’arte e della cultura.

L’altro aspetto importante, messo in rilievo dalla mostra, è che l’ispirazione creativa è un qualcosa che oltre all’arte riguarda anche un oggetto d’uso comune, che, proprio grazie alla sperimentazione artistica, incorpora un valore aggiunto evidenziato dal suo aspetto estetico. In questo modo, grazie alle industrie, si realizzano prodotti di massa, oggetti esteticamente belli alla portata di tutti che, quando erano prodotti artigianali, erano unici e irripetibili. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Scheda del catalogo

Il catalogo, di 414 pagine, illustrato con immagini a colori e in bianco e nero, contiene testi del curatore della mostra Guy Cogeval, del direttore del Royal Ontario Museum William Thorsell, del direttore del Mart Gabriella Belli, del presidente del Mart Franco Bernabè, e di Gimpiro Bosoni, Vittorio Gregotti, Irene de Guttry, Renata Chiazza, Rosalind Pepal, Diane Charbonneau, Achille Bonito Oliva e Paola Antonelli. È edito da Skira editore (www.skira.net), Ginevra-Milano, in febbraio 2007.

 

 

Markus Vallazza

La Divina Commedia-Die Göttliche Komödie

 

La Divina Commedia di Dante Alighieri (1265-1321), ideata come poema sacro in versi pervaso di empiti escatologici e dedicato a una reinterpretazione in chiave provvidenziale della storia umana, cominciato a scrivere all’inizio del XIV secolo, ancora oggi affascina letterati, filologi e artisti capaci di leggerne il contenuto, con il gusto e la cultura attuali, e collocare nelle scene illustrative personaggi a noi vicini. E infatti, in un foglio a tecnica mista del 1995, Markus Vallazza colloca, di fronte a Dante e Virgilio, Freud, Nietzsche, Joyce e se stesso.

Vallazza, ladino-gardesano nato nel 1936 ai piedi del Sassolungo, nel cuore delle Dolomiti, è solo l’ultimo artista che, in ordine temporale, si è cimentato nella grande fatica di reinterpretare graficamente le scene della Commedia come percezioni sensoriali e renderle evidenti agli occhi del fruitore. In questa impresa è stato preceduto da Gustave Doré (1832-1883) che, col suo stile luministico anticipatore dei moduli simbolisti, illustrò la Commedia negli anni 1861-68. Poi è stata la volta di Renato Guttuso, che iniziò negli anni Cinquanta del Novecento per continuare a lavorarvi, nel suo stile realistico-mediterraneo, nel decennio successivo, producendo centinaia di fogli a tecnica mista. Altri artisti come Botticelli, Flaxman e Dalì avevano portato a termine la stessa impresa.

Vallazza, che cominciò a fare conoscenza con l’opera di Dante a Firenze all’età di 19 anni, ha realizzato le illustrazioni della Divina Commedia dal 1994 al 2000. Ha confidato a Margherita de Pilati che lui ha portato avanti questa produzione artistica come una sorta di auto-terapia. Ha utilizzato tecniche diverse: incisioni ad acquaforte, acquatinta e puntasecca, china acquerellata, tempera e tecnica mista. Il suo stile, per diversi aspetti, è chiaramente espressionista con tante scene cupe e tenebrose. Infatti, pur avendo studiato a Firenze, lui risente fortemente dell’impronta artistico-culturale tedesca e riesce a rappresentare con grande efficacia espressiva personaggi e mostri che animano la Divina Commedia. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Scheda del catalogo

Il catalogo, di 120 pagine, illustrato con immagini a colori e in bianco e nero, curato da Margherita de Pilati, contiene testi del presidente del Mart Franco Bernabè, del direttore del Mart Gabriella Belli, di Margherita de Pilati e di Adrian La Salvia. È edito da Skira editore (www.skira.net), Milano, in gennaio 2007.

 

 

Mitomacchina

Il design dell’automobile: storia tecnologia e futuro

 

Un altro grande evento espositivo del Mart è stata la mostra Mitomacchina, dal 2 dicembre 2006 al 1° maggio 2007, che ha avuto 127.083 visitatori. Tantissimi modelli di auto di varie epoche erano esposti, compresa una rarità: il Triciclo Benz Dreirad del 1886, con motore a scoppio, che può essere considerato la prima vera e propria automobile, concepita non come una carrozza per cavalli a cui è stato applicato un motore, ma come un mezzo di locomozione autonomo per il quale viene registrato il relativo brevetto.

Per la prima volta in Italia, questa mostra ha raccontato la storia del design dell’automobile, con le più significative innovazioni, le sue trasformazioni e il suo ruolo da protagonista nella società dei consumi.

Erano due le chiavi di lettura proposte. Da una parte vi erano le auto esposte, che hanno fatto da propulsore dello sviluppo e del cambiamento economico e sociale del mondo, assurgendo ad archetipo di modernità: le Volkswagen Maggiolino e le Golf di Giugiaro, la Fiat 500 e la Mini Minor di Issigonis, le grandi sportive disegnate da Pininfarina per la Ferrari. Insomma, auto esclusive ed auto di massa, auto italiane ed auto straniere per alimentare l’immaginario collettivo. Dall’altra, la possibilità di visionare i progetti, i processi industriali e le sperimentazioni che hanno impegnato i geni della creatività internazionale per la realizzazione di questi prodotti dell’ingegno umano.

L’esposizione ha attirato un pubblico nuovo, che si è mescolato, nelle sale del Mart, ai molti appassionati di design e ai collezionisti. Numerosissime le famiglie, le classi scolastiche, ma anche gli adolescenti e i ventenni normalmente a digiuno di musei.

 

            Attività collegate alla mostra Mitomacchina

A completamento della mostra, il Mart ha organizzato una lunga serie di eventi, proposte e servizi che hanno avuto lo scopo di avvicinare e coinvolgere il territorio.

Ha proposto 23 raduni di auto storiche – dalle Fiat 500 alle Porsche – culminati tra il 23 e il 25 marzo nella prima edizione del Concorso di Eleganza per auto d’epoca Città di Rovereto. Tra le splendide vetture transitate per la città e sotto la cupola del Mart, è risultata vincitrice la Fiat 525 SS del collezionista modenese Giorgio Caprara.

Ai visitatori, ai residenti e ai turisti il Mart ha offerto una serie di dibattiti, conferenze e proiezioni cinematografiche a ingresso libero organizzati insieme al Comune di Rovereto, al Cineforum Trento e al Nuovo Cineforum Rovereto. Questi eventi hanno illustrato il tema dell’automobile agganciandolo al mondo del design, dell’arte dell’ambiente, coinvolgendo un gran numero di appassionati.

Allo scopo di presentare il museo al mondo dell’automobilismo, del design e del collezionismo, il Mart ha inoltre partecipato all’edizione 2007 del Motor Show di Bologna. La partecipazione del Mart ha avuto un carattere di eccezionalità, perché la seguitissima rassegna bolognese non aveva mai ospitato proposte di carattere museale.

L’ufficio comunicazione del Mart ha contattato 2.500 concessionari di auto, 18 Associazioni Tecniche dell’Automobile, 174 Associazioni Automobilistiche all’estero, 1217 Club Auto e 1104 Associati ADI (Associazione Design Italiano). Almeno 75 associazioni hanno visitato la mostra organizzando un proprio gruppo. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Scheda del catalogo

Il catalogo, di 338 pagine, illustrato con immagini a colori e in bianco e nero, contiene testi del presidente del Mart Franco Bernabè, del direttore del Mart Gabriella Belli, di Tomás Maldonado, di Giampaolo Fabris, di Adolfo Orsi, di Lorenzo Ramaciotti, di Mauro Todeschini, di Paolo Tumminelli, di Giuliano olinari, di Sergio Pininfarina, di Gian Piero Brunetta, di Donatella Biffignandi, di Enrico De Vita e Helen Evenden. È edito da Skira editore (www.skira.net), Milano, in novembre 2006.

 

 

Franz von Stuck

Lucifero moderno

 

Proseguendo la sua attività espositiva, che cerca di far conoscere al pubblico la Mitteleuropa, e nel contempo di accostare il mondo latino e quello germanico, il Mart, dal 11 novembre 2006 al 18 marzo 2007, ha allestito a Palazzo delle Albere di Trento una mostra dedicata a Franz von Stuck (1863-1928), artista tedesco, fondatore della Secessione di Monaco, nonché ultimo maestro accademico. Contemporaneamente, nella sede di Rovereto era ospitata una grande mostra dedicata ai protagonisti della Secessione viennese: Klimt, Schiele, Kokoschka e i discepoli della Neukunstgruppe.

Von Stuck, cultore della figurazione e della mitologia classiche, fu artista poliedrico. Infatti, oltre che alla pittura si dedicò al disegno, all’incisione, alla scultura e alla fotografia, adoperata questa anche come fonte ispirativa.

La sua personalità e le sue invenzioni, nell’ambiente dell’Accademia di Monaco, facevano grande presa su Kandinskij, Klee, de Chirico e Albers, tutti artisti che avrebbero avuto un grande ruolo nello sviluppo dell’arte del Novecento in Europa. Ebbe influenza anche sull’evoluzione dell’arte trentina, in particolare sulle opere di Luigi Bonazza (1877-1965) e Luigi Ratini (1880-1934).

Già al suo tempo, le sue opere erano molto ambite dalle case reali europee dell’epoca e anche in Italia, con la grande esposizione che gli dedicò nel 1909 la Biennale di Venezia e una mostra a Roma nel 1911, raggiunse la notorietà e furono acquistate quattro sue tele tra le più importanti che lui dipinse. E queste opere, Scherzo, Medusa, Oreste e le Erinni e Peccato la mostra di Palazzo delle Albere ha avuto il merito di riunire per la prima volta, per offrirle in visione al pubblico assieme a numerosi disegni e raffinate incisioni ricevuti in prestito dal Museum Villa Stuck di Monaco e dal Lascito Stuck. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

 

Scheda del catalogo

Il catalogo, di 160 pagine, illustrato con immagini a colori e in bianco e nero, contiene testi del presidente del Mart Franco Bernabè, del direttore del Mart Gabriella Belli, di Sergio Marinelli, di Andreas Strobl, di Alessandra Tiddia, di Claudio Risé e di Regina Heilmann-Thon. È edito da Skira editore (www.skira.net), Milano, in novembre 2006.

 

Lyonel Feininger

Opere dalle collezioni private italiane

 

All’artista internazionale Lyonel Feininger, figlio di musicisti tedeschi nato a New York (1871-1956), che visse molti anni in Germania, dove crebbe artisticamente, è stata dedicata, dal 19 maggio al 29 luglio 2007, una mostra di 170 opere, allestita con opere in deposito presso il Mart, con due prestiti del Museo Moritzburg di Halle e con altre opere provenienti da collezioni private.

Dopo aver soggiornato a Berlino e ad Amburgo, si stabilì a Weimar come primo Maestro della Bauhaus.

Fu caricaturista e pittore, famoso in America e in Germania, e questa retrospettiva è servita a farlo conoscere anche da noi, dove le sue opere sono note a pochi estimatori. Erano esposti acquerelli, disegni, litografie, stampe umoristiche, dipinti a olio e documentazioni bibliografiche ed iconografiche inedite.

Cominciò a dipingere seriamente nel 1907, quando aveva trentasei anni, perché prima si era dedicato con successo alla caricatura satirico-umoristica sui potenti del mondo, conquistandosi una discreta fama. Aveva idee vaghe sulla pittura a olio e aspirava a diventare disegnatore di manifesti. Riteneva di disegnare da naïf, amava molto la musica di Bach e confidava che i suoi quadri tendessero alla “sintesi della fuga musicale”. I suoi primi quadri sono dipinti con colori sobri e si rifanno alla variante tedesca dell’impressionismo. I quadri successivi, realizzati sotto l’influsso del Cubismo e del Futurismo, dalla critica erano considerati cubisti, ma Feininger non era d’accordo ritenendo il proprio stile “Prisma-ismus”, cioè prismatico. Poi la sua estetica evolve verso un astrattismo geometrico, dove elementi reali come figure, velieri, scorci di paesaggi e marine sono presenti con un tocco d’ironia, ma completamente appiattiti. Il segno è deciso, tende all’essenziale e in certe opere a un’estrema semplificazione.

Lyonel Feininger fu membro della Berliner Secession ed espose le sue opere alla Bauhaus. Poi, quando il nazismo intervenne duramente anche nel campo delle arti, lui se ne tornò in America con la moglie.

Presso il Museo del Buonconsiglio è conservato il lascito musicologico di don Lorenzo Feininger, uno dei due figli dell’artista, che visse a Trento, dal 1938 alla sua morte avvenuta nel 1976, dedicandosi alla raccolta, recupero e studio di testi antichi di musica sacra. A don Lorenzo apparteneva un cospicuo numero di opere d’arte paterne, ricevute come quota di eredità. Le offerse a prezzi, pressoché irrisori, agli enti pubblici trentini, che non ne vollero sapere. Fu una scelta politico-culturale errata. Quelle opere, che oggi avrebbero potuto costituire un fondo cospicuo e inestimabile per il Mart, furono collocate sul mercato internazionale. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

Scheda del catalogo

Il catalogo, di 183 pagine, curato da M. Francone, D. Perra e S. Parini, illustrato con immagini a colori e in bianco e nero, contiene testi del Presidente della PAT, Lorenzo Dellai, della vicepresidente e Assessore alla Cultura della PAT, Margherita Cogo, del presidente del Mart, Franco Bernabè, del direttore del Mart, Gabriella Belli, di Wolfang Büche, di Danilo Curti-Feininger, di T Lux Feininger, di Adolf Knoblauch e di Lyonel Feininger. È edito da Skira editore (www.skira.net), Ginevra-Milano, in maggio 2006.

Maurice Denis

Maestro del Simbolismo francese e internazionale

 

La mostra roveretana dedicata al pittore francese Maurice Denis (1870-1943), maestro del simbolismo francese e internazionale, aperta dal 23 giugno al 25 settembre, è stata la mostra evento dell’estate 2007.

Denis fu pittore, decoratore, grafico, fotografo, teorico e critico d’arte. Questa poliedricità di interessi gli consentiva di godere di un’ampia visione culturale e sperimentare nuove tecniche e nuovi linguaggi espressivi, per dare un apporto personale significativo all’evoluzione dell’estetica artistica, a cavallo della fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.

Dopo essere stato vicino all’arte di Sérusier e Gauguin, avere insegnato nell’Accademia Ranson e partecipato alla fondazione degli Ateliers d’art sacré, ebbe una vasta produzione pittorica che muove da un’estetica preraffaellita per approdare a un’arte neoclassicista. Partecipò alla fondazione del movimento dei Nabis, di cui fu uno dei maggiori teorici, e le sue opere sono cariche di intimismo e percettibile enigmaticità. Tornando alla tradizione della grande pittura murale, eseguì decorazioni solenni, che allo stesso tempo sono anche leziose, ispirate a un cattolicesimo di fonte letteraria.

La mostra ha ripercorso le tappe artistiche di Maurice Denis, dal periodo Nabis a quello più fortemente simbolista, con i capolavori prestati generosamente dal Musée d’Orsay di Parigi.

In mostra erano esposte anche molte foto, scattate dall’artista stesso, e servite come fonti ispirative per diverse sue opere pittoriche. (Questo articolo è nel sito www.angelosiciliano.com).

 

            Zell, 30 settembre 2007                                              Angelo Siciliano