IL VINO DI DIONISO -
Mostra al Museo Civico di Rovereto
La
Confraternita della Vite e del Vino di Trento, che per statuto è
un’associazione libera e volontaria con lo scopo di mantenere e
sviluppare le tradizioni vitivinicole della terra trentina, e il cui
obiettivo principale, prima ancora della degustazione, è fare cultura
del vino attraverso la conoscenza dei luoghi di coltura, dei tipi di
vitigni coltivati, dei produttori sparsi sul territorio con le loro
tradizioni, delle tecniche enologiche e della storia che il vino, in
quanto prodotto di qualità, riesce a racchiudere in una bottiglia, non è
sola in questo compito. Capita spesso che altri, enti pubblici o
privati, inseriscano nella loro attività iniziative che hanno a che fare
col vino. E la cosa non può non destare interesse e simpatia nella
Confraternita e nei suoi soci.
È il caso
della mostra Il Vino di Dioniso – Dei e uomini a banchetto, promossa
dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Basilicata, in
collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della
Provincia Autonoma di Trento, curata da Maria Luisa Nava e Antonio De
Siena e ospitata dal Museo Civico di Rovereto, dal 22 febbraio al 31
agosto 2005.
Si tratta
di una mostra archeologica itinerante, già ospitata a Siena nel 2002,
nel Museo di Santa Maria della Scala, e a Lerici (La Spezia) nel 2004,
nel Museo del Castello.
Dioniso,
detto anche Bacco, dio della vegetazione e della fertilità, protettore
della vite e del vino, ha origini incerte: Tracia, Frigia, Creta, Pilo.
Non è considerato un dio propriamente ellenico, vale a dire indoeuropeo.
Il primo
a scrivere del vino come un dono di Dioniso, fu Esiodo.
Nella
mitologia Dioniso è figlio di Zeus e Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe.
Morta
Semele, folgorata dallo splendore di Zeus, poiché Dioniso non era ancora
nato, il padre degli dei lo estrasse dal ventre materno e se lo infilò
in una coscia.
Una volta
nato, Dioniso fu allevato da Ino e dalle ninfe del monte Nisa. Divenuto
adulto, costituì un corteo festante di menadi, dette anche baccanti,
satiri e sileni per diffondere tra gli uomini il suo culto e la
coltivazione della vite. Agli uomini avrebbe insegnato in quali
proporzioni andava diluito il vino con l’acqua, giacché nell’antichità
il vino era molto alcolico e in Grecia era fatto divieto di berne allo
stato puro, poiché era considerato una bevanda pericolosa simile ad una
droga.
Il dono
del vino e i doni fatti dagli altri dei consentirono all’uomo di
svincolarsi dallo stato naturale, per acquisire una cultura complessa.
Giunto a
Nasso, Dioniso sposò Arianna, che era stata abbandonata da Teseo, e la
leggenda vuole che egli sia arrivato fino in India per diffondere il suo
culto. Una volta che questo si era affermato dappertutto, andò a
liberare sua madre dall’Oltretomba e in seguito fu accolto tra gli dei
dell’Olimpo.
A Dioniso
sono legati i riti e i misteri dionisiaci.
Durante i
riti dionisiaci, i partecipanti al tiaso, o corteo bacchico, si
abbandonavano ad uno stato d’ebbrezza e l’orgiasmo dionisiaco e il
menadismo, cioè il comportamento delle menadi nei riti dionisiaci,
assumevano una spiccata connotazione erotico-sessuale.
I riti
dionisiaci erano praticati anche in Puglia, nella zona di Taranto, sino
al II sec. d. C., e da essi sarebbe nato, come musica catartica, il
ballo parossistico del tarantismo e da questo la tarantella napoletana,
molto diffusa come danza anche nelle altre regioni meridionali.
Negli
affreschi parietali della Villa dei Misteri, della Pompei romana del I
sec. a. C., è rappresentata in modo spettacolare l’iniziazione ai
misteri dionisiaci.
La
mostra, nelle sue tre sezioni ospitate nei locali dei diversi piani del
museo roveretano, con gli oltre 150 reperti di provenienza lucana, per
lo più facenti parte di corredi funerari, illustra il consumo del vino
nell’antichità, le tecniche produttive, i metodi di conservazione e
trasporto, ma anche l’assunzione del vino nell’ambito di tutte quelle
pratiche rituali, quali i banchetti e i simposi legati al culto di
Dioniso, il dio che sovrintendeva sia alla vinificazione che al consumo
sacrale del vino.
L’arco
cronologico rappresentato va dalla fine dell’età del Bronzo all’epoca
imperiale romana.
Data dal
VII sec. a. C. la diffusione in Magna Grecia degli usi e costumi della
madre patria da parte dei coloni greci, tra cui il consumo del vino. È
importante rilevare che, già nei poemi omerici, è esaltato l’uso di
questa bevanda nelle occasioni conviviali delle classi aristocratiche
greche.
Sono
esposti spiedi, treppiedi, lucerne, kottaboi e vasi di ceramica o di
metallo come crateri, anfore, oinochoai, kylikes, kantharoi, e rhytoi.
Numerosi vasi decorati a figure rosse e nere, di produzione ellenica e
datati tra il VI e IV sec. a. C., furono importati dalle comunità
italiche.
Una
sezione della mostra è dedicata a Dioniso e al suo tiaso bacchico, con
l’esposizione di ceramiche d’origine attica e italiota con decorazioni
votive.
Nella
seconda metà del I sec. a. C., la Magna Grecia non aveva più una propria
organizzazione politica ed economica autonoma, perché da oltre un secolo
ormai era stata inglobata, con tutta l’Italia meridionale, nello stato
romano.
L’esposizione di Rovereto è più ricca di reperti, rispetto alle due
versioni precedenti. Infatti, accanto alla collezione d’oggetti della
Magna Grecia del Museo Archeologico di Metaponto, sono esposti anche i
reperti archeologici delle collezioni del Museo Civico, rappresentate
dal cratere attico a colonnette a figure rosse con scena dionisiaca,
dono della Regione Sicilia, a fronte della donazione fatta a quest’ultima
della biblioteca privata di Paolo Orsi, dai diversi reperti trentini
d’epoca romana, inerenti all’uso e al commercio del vino, e da quelli,
sempre d’età romana, riguardanti il trasporto e il commercio di vino e
olio, provenienti da Aquileia e acquisiti dal museo roveretano nel 1800.
Se presso
i Romani la vite era conosciuta e coltivata sicuramente già dal V sec.
a. C., i vini più apprezzati erano quelli ellenici di importazione, che
tuttavia risultavano troppo costosi e quindi non accessibili a tutti i
cittadini.
Ancora
nel III sec. a. C. il vino romano era di sapore aspro e di scarsa
qualità. Solo successivamente, dopo la conquista del Mediterraneo
Orientale, la qualità poté essere migliorata, grazie all’introduzione di
nuovi vitigni, al miglioramento delle tecniche di vinificazione e ai
nuovi metodi di conservazione.
In
Trentino, grazie ai reperti ritrovati, quali falcetti da vignaiolo e
arnesi per la fabbricazione delle botti, la coltivazione della vite e la
vinificazione risalgono al V–IV sec. a. C..
In
Vallagarina probabilmente la coltura della vite risale a quest’epoca,
come attesterebbe il ritrovamento della
falx arboraria nello scavo della villa
romana di Isera. C’è da aggiungere che la
Vitis raetica, da cui era ricavato il
Vinum raeticum, molto apprezzato
anche dall’imperatore Augusto, si coltivava nelle campagne di Verona, al
cui municipio istituito dai Romani apparteneva anche la Vallagarina.
Il catalogo, insieme
ai testi scritti da Maria Luisa Nava, Salvatore Bianco, Angelo Bottini,
Marcello Tagliente, Marcella Barra Bagnasco, Francesca Silvestrelli,
Antonio De Siena, Liliana Giardino, Salvatore Alessandrì, Gianni
Ciurletti e Barbara Maurina, contiene una quindicina di illustrazioni a
colori e le schede di 165 reperti; è di 86 pagine ed è stato stampato,
in febbraio 2005, da Edizioni Osiride di Rovereto e costa € 15.
Zell, 24
aprile 2005 Angelo
Siciliano
(www.angelosiciliano.com
)
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