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Il
basilico, basilikón, ovvero
la pianta dal profumo mediterraneo di ‘erba reale’
come la
chiamavano i Greci; le case crollate o pericolanti da abbattere in
Via del Monte,
la strada
del borgo medievale, lastricata con basoli di lava del Vesuvio,
rinominata
Corso
Umberto I, in onore del secondo re d’Italia assassinato a Monza nel
1900 dall’anarchico
Gaetano
Bresci per la sua politica autoritaria e repressiva, e che conserva
ancora, a dispetto
dei
rifacimenti del passato, diverse maschere apotropaiche sulle chiavi
di volta dei portali;
il
Trappeto, rione trogloditico ignominiosamente abbandonato dopo il
terremoto del 1962;
il centro
storico, che aveva subito stessa sorte dopo il terremoto del 1980
e che solo
da qualche anno si sta cercando in qualche modo
di
recuperare e rivitalizzare
La memoria, di chi ancora si ostina
a ricordare e a conservare, come in uno scrigno, il passato,
purtroppo non riesce a fermare né a sanare le devastazioni che la
natura, nella fattispecie terremoti e agenti atmosferici
distruttivi, e poi, forse più gravi perché colposi, il rilassamento,
l’abbandono e l’incuria da parte degli umani producono
inesorabilmente su vie, case e rioni frequentati e abitati da
innumerevoli generazioni di Montecalvesi.
L’emigrazione, lo scorrere del
tempo e la lontananza ovattano nostalgia e rimpianti. Ma lo sgomento
per i nuovi crolli rinnova, in chi torna in paese periodicamente,
certe ferite. Solo in apparenza cicatrizzate e dimenticate.
Apprendere, da chi ancora si ostina a abitare qualche casa e a
tenere in bella mostra un vaso con garofani rossi fioriti e
basilico, caròfini russi shcuppàti e masinicója,
su un muretto nella parte di questa via, dove ci si appresterebbe ad
abbattere le case superstiti di corso Umberto I, che affacciano sul
Trappeto, perché pericolanti, non fa piacere. Una strada solitaria e
metafisica, in cui spariranno, con i portali delle abitazioni, com’è
già successo in passato per altre case abbattute senza controlli o
crollate in paese, i conci decorati e le maschere apotropaiche, che
hanno assicurato per secoli la protezione scaramantica contro il
male e le intrusioni perniciose a chi queste case le abitava.
Testimonianze di storia arcaica, miti e leggende saranno cancellati
per sempre. Come è già avvenuto in buona parte per il nostro
dialetto, per i canti popolari religiosi e profani, per favole,
detti, filastrocche, usi e costumi, e centinaia di soprannomi e
toponimi. Insomma, tutto un patrimonio che i nostri avi hanno
elaborato, custodito e tramandato per secoli, autentico collante
della civiltà agro-pastorale, che si sta volatilizzando. «In cambio
di cosa?» verrebbe da chiedersi. La risposta è semplice: «Per una
cultura mediatica appiattita, banale, mercificata, spersonalizzata e
spesso volgare, e una lingua semplificata, banalizzata, immiserita
dai luoghi comuni, dal consumismo e dai messaggi con e-mail e
cellulari».
Ci aveva provato Mussolini, nel
ventennio fascista, a cancellare i dialetti italiani. Ora la Lega di
Umberto Bossi si fa portatrice di un’inversione di tendenza epocale:
approvare una legge in parlamento per l’insegnamento dei dialetti
nelle scuole italiane, per conservare le identità etniche.
A proposito delle case abbandonate
del paese, nel 2006 Alfredo Siniscalchi mi confidava che da almeno
un decennio andava proponendo agli amministratori montecalvesi di
cedere in comodato le case dei quartieri abbandonati, venute a far
parte del demanio comunale, a cittadini ‘forestieri’ con l’obbligo
del restauro, della conservazione e della dimora seppure saltuaria.
Questi nuovi dimoranti venuti da fuori avrebbero portato nuove
risorse sia per la riparazione delle case sia con l’incremento nei
consumi dei prodotti tipici locali. Purtroppo, nonostante
l’autorevolezza di quel proponente, quella proposta rimaneva
inascoltata, perché in questo paese bastava la conservazione del
potere nel tempo. Contavano solo i soldi. E i giochi, le promesse,
le faziosità, le finzioni, i ricatti, i dispetti, le menzogne, gli
indebiti rimborsi di imposte con mazzette, i sotterfugi per i
contributi sulle perizie delle abitazioni danneggiate dai terremoti.
Anche quando la legge non avrebbe dovuto consentirlo. Perché le
vecchie case erano spesso vendute e passavano di mano, come carte da
tressette. Insomma erano essenziali il “serbatoio” elettorale,
qualche fornicazione e il mantenimento dello status quo
di un paese depresso, avvelenato da invidie e gelosie tra famiglie.
E comunque rassegnato all’immobilismo!
Certamente Ciriaco De Mita, o chi
per lui, ha fatto arrivare da queste parti fiumi di denaro. Ma visti
i risultati della ricostruzione, in ossequio ad una cementificazione
disordinata del territorio, improntata ad un’assoluta anarchia
architettonica, sarebbe stato meglio se di fondi ne fossero arrivati
meno. Molti di meno. Si sarebbero evitati gli sprechi per edificare
tanti alloggi rimasti inabitati. Vi sarebbero stati meno insulti
all’ambiente e meno abbattimenti affrettati. Uno per tutti: il
convento dedicato a S. Antonio
da Padova, ultimato nel 1631 e spianato dopo il terremoto del 1962.
In questo paese le ingordigie, le
miopie e l’incultura sono riuscite a sterilizzare la speranza e a
dare linfa alla malapianta della miseria morale.
Gli ideali dei pochi, che non si
allineavano agli interessi particolari, e le rare proposte per
invertire la rotta, che avrebbe condotto ad un disastro inesorabile
– vedi l’enorme debito accumulato dal comune in questi ultimi anni e
l’arresto di alcuni tecnici e amministratori comunali – erano per
loro solo fumo negli occhi.
In seguito, iniziative simili alla
proposta di Alfredo Siniscalchi, sarebbero state portate avanti in
altre parti d’Italia: da Vittorio Sgarbi per Salemi (Trapani), paese
di cui è sindaco, e da qualche amministratore in Liguria per il
proprio paese spopolatosi dei suoi abitanti.
Visto che si va completando il
restauro del castello di Montecalvo, se fossi nelle condizioni di
poter dare un consiglio ai nuovi amministratori comunali,
insediatisi con le elezioni del giugno 2009, suggerirei di istituire
uno spazio per il Lapidario, dove accogliere stemmi e fregi
architettonici delle case abbattute, prima che i “procacciatori” di
tali reperti li facciano sparire per sempre dal paese.
A riguardo del basilico, ortaggio
estivo assai profumato, la gastronomia genovese, grazie al pesto, ne
ha fatto un alimento rinomato. Per noi emigranti, il basilico,
masinicója in dialetto, non
è solo un fatto olfattivo. Esso ci lega al passato e ci restituisce
– a mo’ di risarcimento – un mondo d’affetti, di usanze e ricordi
indelebili. Insomma, è un vegetale impagabile. Oltre che nell’orto
era coltivato con amore dalle donne, li ffémmini,
nei vasi o in vecchie bagnarole e consumato fresco per aromatizzare
insalate, ragù e salsa di pomodoro in bottiglia, conservata a
bagnomaria (dal nome dell’alchimista Maria l’ebrea, sorella di
Mosè), o essiccato per l’inverno per le pietanze condite con parti
di maiale passate in salamoia.
L’etimo basilico viene dal latino
basilicus, e questo a sua
volta dal greco basilikón,
erba reale.
Rasta,
rametto, frammento, deriva dal greco bizantino
gastra,
che significa vaso largo di ventre, coccio.
«La téne ricilàta com’a na
rasta di masinicója (la tiene
riguardata come una pianta di basilico)» dicevano di qualche madre,
che stravedeva per sua figlia e le impediva ogni contatto con gli
estranei, perché i pregiudizi dei compaesani non ne compromettessero
la reputazione, in vista di un prossimo fidanzamento.
NA RASTA DI MASINICÓJA
Pi la vija ‘lu Mónt
fatt’a bbàsuli di lu Visùviju,
cu ffacci di Mamùni1 ‘n cap’a li ppòrti,
ci stévunu putijàri, scarpàri, cusitùri,
maste, pannazzàri, aréfici, sicchjàri…
E ttanta belle figlióle!
Mo’, li ccàsura a pparte di sótta
ca stannu da còpp’a lu Trappìtu
so’ abbandunàte, ca li padruni
so’ muórti o frabbicàrnu p’ati posti.
Squartéjunu e ogni sgarrupìzzu
fa murrécini ca ci cresce
l’èriva pi ccòppa: pastun’e rrùca.
E cquéddre ca stannu ‘mpalàti
pi scumméssa tiénunu lu tittu
ca pare justu na suttétta
e ci jòcca e cci chjòve dintu
e mmo’ l’hann’abbatt’a ffilu.
Ma da còpp’a lu furnu
di Sciacquaglìna2, andó si sfurnàva
tantu di quéddru pane
pi ttanta vócche da sfamà,
cócchidùnu ancóra c’àbita
e tténe na testa a la vista
‘ncòpp’a nu murèttu cu ddintu
nu caròfunu russu shcuppàtu
e na bella chjanta di masinicója
ca cu na rasta si po’ priparà
nu zucu addurènte da fa ‘ngannarì
‘ddra mórra di cristiani
ca ‘n ci passa chjù pi da qua.
Montecalvo
Irpino, 25 giugno 2009
Angelo
Siciliano
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UN RAMO DI BASILICO
Per il corso Umberto I
lastricato con basoli del
Vesuvio,
con facce mostruose sulle
chiavi di volta,
vi erano bottegai, calzolai,
sarti,
sarte, venditori di stoffe,
orefici, falegnami…
E tante belle ragazze!
Ora, le case esposte a sud
sul rione Trappeto
sono abbandonate, perché i
proprietari
sono morti o le riedificarono
altrove.
Stanno crollando e ogni rudere
fa mucchi di sassi e vi cresce
l’erba su: artemisia alba e
rucola.
E quelle che si tengono in
piedi
per scommessa hanno il tetto
che pare una tettoia alla buona
e vi nevica e vi piove dentro
e ora le abbatteranno tutte.
Ma sopra il forno
di Sciacquaglina, dove si
sfornava
tanto di quel pane
per tante bocche da sfamare,
qualcuno ancora vi abita
e tiene un vaso in vista
sopra un muretto con dentro
un garofano rosso sbocciato
e una rigogliosa pianta di
basilico
e con un suo rametto si può
preparare
un ragù profumato da allettare
quella folla di persone
che non passa più per di qua.
|
1
Mamùni,
termine alquanto onomatopeico, nella mitologia contadina stava
per figure mostruose, adoperate per inibire i bambini e indurli
a desistere dal frignare e fare capricci. È traducibile con
“Gatto mammone”, che anticamente era attribuito ad alcune specie
di scimmie e a un gatto grande favoloso, adoperato
nell’intrattenimento dei bambini.
Mammone è il
cognome di un brigante, Gaetano Mammone, nato a Sora (Fr).
Secondo la leggenda si comportava da mostro sanguinario
all’epoca dell’altro brigante Fra’ Diavolo (1771-1806), il cui
nome era Michele Pezza. È probabile che sia lui l’uomo nero dei
bambini.
2
È un soprannome montecalvese
che deriva da sciacquàglia,
che sta per grosso orecchino d’oro a cerchio con pendente,
oppure per bargiglio.
|
Il 5 novembre 2005, usciva sul
Corriere - quotidiano
dell’Irpinia il mio articolo “S.
o S. per il Trappeto”, corredato di
numerose foto, con cui lanciavo l’allarme per lo stato di degrado e
abbandono in cui versano da anni il Trappeto e alcune costruzioni
storiche di Montecalvo, come il Castello di Corsano, la Chiesa di S.
Gaetano da Thiene, il Casino di Stiscia e la Taverna del Duca alla
Malvizza.
Sempre per il Trappeto, rione
particolare per la sua conformazione di case con grotte, che si
arrampicano sul fianco della collina, e la posizione rivolta a sud,
più caldo d’inverno rispetto ad altre aree del paese esposte a est o
a nord, nel 1987, scrissi il testo poetico che segue. Erano passati
25 anni dal terremoto del 1962, ma le case si presentavano intatte.
Qualcuna era ancora abitata, ma per la maggior parte erano
abbandonate, giacché i proprietari s’erano trasferiti nei nuovi
rioni: anonimi dormitori, edificati con i contributi post terremoto.
Era ancora perfettamente leggibile
il tipo d’esistenza che contadini e ciucai vi avevano condotto,
facendo vita simbiotica con i propri animali domestici: colombi,
polli, anatre, oche, conigli, maiali, pecore, capre, asini e muli.
In questa terra di gente ruspante, gli uomini erano patriarchi, che
trasmettevano anche saggezza. Non si chiudevano in cupi pensieri,
come succede oggi, rimbecilliti dall’elettrodomestico televisivo.
Al rientro degli emigranti, in
agosto, vi si organizzavano passeggiate serali e scene
folkloristiche.
Il rione, illuminato, si rianimava
per rinverdire la memoria e indicare ai giovani le proprie radici.
Anche Matera vecchia, con le sue
chiese rupestri, fu abbandonata dai suoi abitanti, fatti trasferire
nei nuovi quartieri di alloggi popolari. Ma poi, lì hanno capito in
tempo che bisognava fare qualcosa per salvare un patrimonio
architettonico unico, abitato da millenni, che affaccia sullo
strapiombo della gravina. E così i Sassi di Matera, dichiarati
dall’U.N.E.S.C.O. patrimonio dell’umanità da salvare e tramandare,
hanno ripreso da qualche decennio ad essere abitati e a riempirsi di
vita, grazie anche agli incentivi del Comune e all’arrivo di tanti
turisti. E sono diventati luogo di musei, di convegni e mostre
nazionali e internazionali.
Invece qui al Trappeto, con i tanti
crolli, i ruderi cancellano anche la memoria e si ha la percezione
che il tempo non solo è passato, ma si è addirittura perduto. In
prospettiva, purtroppo, anche il futuro pare perduto.
LU TRAPPITU
Lu Trappìtu s’affaccia
‘ncòpp’a lu Fuóssu Palùmmu
andó c’àbitunu ciàuli e cristariéddri.
Li ccàsura, agguattàti ‘ncòpp’a lu ttufu,
pare ca stannu ‘nd’à nu prisèbbiju.
Tiéninu grùttira lònghe
andó li cristiani ci tinévunu
ciucci, puórci, cucci e ccaddrìni.
Cèrtu rótte, si dice,
jévun’a ffinì sótt’a lu palàzzu ducale,
andó ci stéva lu duca Pignatèlli.
A la matìna, li campagnuóli
jinchévunu li ccésti,
caricàvunu li bèstiji
e ghjévun’a Magliànu
o a la Trigna a fatijàni.
Dòppu lu tirramóte di lu Sissantadùji,
‘sti ccase so’ ttut’abbandunàte:
c’àbitunu li cciàvéttuli.
Pàrlunu di li Sassi di Matera,
pi ttilivisióne o ‘ncòpp’a li giurnali.
‘Sti ppréte di lu Trappìtu
accóntunu puru lóru
tanta stòriji antiche:
nu’ vi pare di vidé
tanta vècchje cu’ la pannùccia
affacciàt’arrét’a li ppurtéddre?
Testo di
Angelo Siciliano tratto da
Lo zio d’America,
pubblicato
dall’editore Menna di Avellino nel 1988.
|
IL TRAPPETO
Il Trappeto affaccia
sul fosso Palummo
dove dimorano taccole e gheppi.
Le case, appollaiate sul tufo,
pare che siano in un presepio.
Hanno grotte lunghe
dove gli abitanti vi tenevano
asini, maiali, conigli e
galline.
Di alcune grotte, si racconta
che arrivassero sotto il
palazzo ducale,
dove abitava il duca Pignatelli.
Ogni mattina, i campagnoli
riempivano le ceste,
caricavano le bestie
e si recavano a Magliano
o alla Trigna a lavorare.
Dopo il terremoto del 1962,
queste case sono tutte
abbandonate:
vi abitano le civette.
Parlano dei Sassi di Matera,
per televisione o sui giornali.
Queste pietre del Trappeto
raccontano anch’esse
tante storie antiche:
non vi sembra di vedere
tante vecchie col panno (in
testa)
affacciate dietro le portelle?
|
E il testo in lingua che segue,
Malvedere, che attiene
sempre al Trappeto, lo scrivevo nel 2004.
MALVEDERE
Dove il calanco divora
il cuore di terra della gente
dei vivi e non più vivi
la civetta fa scura la sera
al desolato crinale riarso
su uno smilzo olmo solitario
ancora scampato alla folgore
tra sterpaglie e non più stoppie
e il gheppio non sa essere freno
allo spirito avverso che infierisce
sui tetti delle case del Trappeto
che l’incuria ha tutti sfondati
uno ad uno di notte con le
intemperie
eppure il bene oneri ulteriori
da sopportare non avrebbe arrecato
per un destino che scivola via
di cui non si è padroni
e di certo non è un bel vedere.
Sperare di vivificare questi luoghi
è come pensare di cancellare
l’inferno.
Zell, 13
settembre 2004
Angelo
Siciliano
(Questo
testo, scritto per il
Corriere – quotidiano dell’Irpinia,
è fruibile nel sito www.angelosiciliano.com).
Krotone, 25 agosto
2009
Angelo Siciliano
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